Con una decisione che sembra scientificamente debole, lo Stato maggiore della Difesa ha ordinato ai propri militari di non pronunciare il “Sì!” finale nell’esecuzione dell’inno nazionale.
“Il canto degli italiani”, tuttavia, non si presta a differenti esecuzioni, variabili anche nella lunghezza e nel ritmo, come la Nona sinfonia di Beethoven. Il compositore Michele Novaro, che musicò la poesia di Goffredo Mameli alla fine del 1847, ci lasciò nello spartito indicazioni inequivocabili. Il finale si raggiunge in un crescendo nel quale quel “Sì!” rappresenta l’immortale sillaba che chiude una delle pagine più intense del Risorgimento, dalle quali sgorga quell’impronta marziale che deve essere contestualizzata.
Non sono, infatti, due lettere qualsiasi, ma un segnale identitario perché nella lingua italiana, che si va costruendo con fatica grazie a Dante e a Petrarca, l’Italia ha l’avverbio affermativo che la distingue dalla lingua d’oïl (centro-nord della Francia) e dalla lingua d’oc (in Provenza): oïl e oc significano entrambi sì, ma quest’ultimo si pronuncia solo in Italia e ne assume, pertanto, un tratto distintivo: “il bel paese là dove ‘l sì suona” (Inferno, XXXIII, 80.
Fatte queste premesse, veniamo alle questioni giuridiche.
Con DPR 15 marzo 2025 la Presidenza del Repubblica ha opportunamente deciso di fornire indicazioni sulle prassi esecutive dell’Inno nelle cerimonie pubbliche. Siamo in presenza, pertanto, dell’autorizzazione di una “short version” del nostro patrimonio identitario musicale, ma che nulla ha a che spartire con lo scempio del “Sì!” finale, che, di contro, non compare nel provvedimento del Quirinale, ma che si trova nella Circolare 2 dicembre 2025, n. 229340 dello Stato maggiore della Difesa, recentemente venuta a conoscenza degli analisti di settore.
Nel tempo, invero, abbiamo assistito a non pochi “maltrattamenti” del nostro inno, come ci ha insegnato lo storico più importante del ramo, Michele d’Andrea. Cosa abbia spinto gli alti boiardi a scrivere un ordine infelice di senso filologico non è dato sapere. Quel che è certo è che si tratta di una interpretazione del provvedimento del Quirinale attraverso il quale si autorizzava esclusivamente la prassi esecutiva ridotta dell’inno nazionale, senza interventi sul testo.
È possibile azzardare una prognosi? il popolo italiano continuerà a pronunciare quel sì, parlato, non cantato, perché si tratta della conclusione musicale più consona al crescendo delle onde del mare in tempesta che si infrangono nel cuore del Risorgimento italiano. Quel “Sì!” racchiude il sentimento patriottico, culturale e non formale dell’Italia che sta finalmente prendendo la forma di uno Stato libero.
In un Paese che tra poco si dividerà nel referendum tra il sì e il no a favore della riforma della carriera dei giudici, non dobbiamo permettere che ci siano divisioni su quel “Sì!” identitario. Dobbiamo ammettere che abbiamo avversari formidabili, tra cui il maestro Muti e alcune esecuzioni di cantanti e comici che da un lato hanno in qualche modo fornito una lettura “artistica”, dall’altro nn hanno aderito alle fonti primarie. La storia reclama dal profondo delle origini della nostra Italia che quel “Sì!” deve essere mantenuto, perché si tratta di una scelta consapevole effettuata da chi l’inno lo scrisse, lo ideò in pieno fermento di battaglie rivoluzionarie, che ci condussero per mano fuori dal periodo delle Dominazioni straniere nel nostro paese.
Lo Stato maggiore della Difesa ha quindi il potere di impartire ordini ai militari, ma non al mondo civile e della cultura: la storia non si piega a chi pretende di cancellare con un tratto di elisione beffarda la nostra identità nazionale racchiusa proprio in quel “Sì!”. Il contesto era certamente marziale, ma è sempre necessario contestualizzare le fonti storiche e non interpretare oggi il senso della guerra di quasi due secoli fa.
Ai vanagloriosi che sostengono di rispettare la filologia nell’omissione del nostro “Sì!”, ricordo che la critica testuale e musicale dell’inno afferma l’esatto contrario in maniera incontrovertibile. Fu lo stesso Michele Novaro a scrivere «E il poeta mi perdonerà se, per mandare questo grido, ho aggiunto all’ultimo verso una sillaba: l’Italia chiamò: Sì!».
Abbiamo descritto come scientificamente infondata la decisione dello Stato maggiore della Difesa. Ora dobbiamo aggiungere che probabilmente lo è anche giuridicamente. Infatti, il DPR 15 marzo 2025, art. 2, comma 2, dispone testualmente che le prassi esecutive dell’inno devono seguire il «testo di Goffredo Mameli, come previsto dallo spartito originale di Michele Novaro».
Orbene, lo spartito di Novaro (qui sotto) riporta proprio quel “Sì!”.

Da ciò consegue che filologicamente lo spartito originale scritto di pugno da Novaro sul testo olografo pervenutogli da Goffredo Mameli a Torino riporta esattamente quel sì. La filologia musicale, pertanto, sposa con la gioia di una liberazione quell’urlo di adesione ai valori di Risorgimento racchiuso in quella sillaba meravigliosa che contraddistingue l’Italia.
Si tratta, pertanto, della clausola perfetta del nostro Inno nazionale, perché non è soltanto di Mameli, ma appartiene anche alla genialità, anche scenografica, del compositore Michele Novaro.
Nota redazionale:
Può essere scaricato gratuitamente il libretto “Impariamo il Canto degli italiani” da qui: https://www.filodiritto.com/sites/default/files/2021-03/Gianni_Penzo_Doria_INTERATTIVO.pdf
Qui invece il video YouTube:
