Un recente articolo di una psicologa ha identificato un fenomeno in crescita: sempre più persone si sentono inutili di fronte all’intelligenza artificiale. Pazienti che confessano “Mi chiedo a cosa servo” e “Se un computer fa tutto meglio di me, qual è il mio posto nel mondo?“.
L’autrice propone di trattare questo malessere come “normale ansia” da affrontare gradualmente, suggerendo di usare l’AI per piccoli progetti per scoprirne i limiti e le imperfezioni.
Ma questa diagnosi manca completamente il bersaglio.
Il vero problema: l’assenza di competenze distintive
L’ansia da intelligenza artificiale non è un disturbo psicologico da curare con terapia rassicurante. È la naturale conseguenza di una presa di coscienza brutalmente onesta: molte persone si rendono conto di aver trascorso anni, se non decenni, svolgendo lavori che non richiedevano alcuna competenza veramente “umana”.
Se il tuo valore professionale si basa su compiti ripetitivi, calcoli di routine, compilazione di moduli, o scrittura formulaica, l’AI non ti sta creando un’ansia irrazionale: ti sta semplicemente rendendo obsoleto. Non è mancanza di consapevolezza delle proprie competenze uniche: è mancanza di competenze reali, punto.
Copiare dati da un foglio Excel all’altro o fare lavori di routine per vent’anni non sviluppa nessuna abilità. Scrivere email standardizzate non crea pensiero critico. Semplicemente atrofizza il cervello. Quando arriva l’automazione non c’è nessuna competenza “nascosta” da riscoprire, semplicemente non è mai esistita.
Inoltre è particolarmente fuorviante l’idea di rassicurare le persone puntando sui difetti dell’AI, come suggerisce l’articolo. Dire che “l’intelligenza artificiale sbaglia, ha allucinazioni, ha bisogno del nostro intervento” è una consolazione di bassissimo livello, che mostra ignoranza del problema.
La diagnosi vera: consolazioni false e pericolose
L’ansia da intelligenza artificiale non va curata con terapia: va affrontata con onestà intellettuale. Chi si sente inutile di fronte all’AI spesso ha ragione: il suo lavoro era effettivamente inutile, o quantomeno facilmente automatizzabile.
La soluzione non è rassicurazione psicologica, ma acquisizione tardiva di competenze reali. Sviluppare finalmente capacità di problem-solving creativo, pensiero strategico, competenze relazionali profonde, o abilità tecniche distintive.
Non è un percorso facile, e per molti potrebbe essere troppo tardi o economicamente difficile. Ma è l’unica strada onesta, invece di fingere che il problema sia nell’autostima quando è nelle competenze.
In effetti l’AI mette due mondi a confronto e la reazione all’AI divide nettamente due categorie di persone: chi ha sempre eseguito si sente minacciato e inutile, certamente il suo lavoro può essere sostituito da un software, spesso con risultati migliori e costi inferiori, chi ha sempre creato trova nell’AI un alleato entusiasmante.
L’AI come amplificatore: potente ma imperfetto
Per chi ha passato la vita a inventare, progettare, risolvere problemi complessi, l’intelligenza artificiale diventa un moltiplicatore di capacità, non un sostituto. Ma purtroppo a volte con serie limitazioni. Infatti l’esperienza pratica rivela la vera natura dell’intelligenza artificiale: è un tool straordinario per chi sa usarla, ma con limiti precisi che richiedono competenza umana per essere gestiti.
Nello sviluppo software, ad esempio, l’AI eccelle nel generare il 95% del codice standard in tempi record. Ma produce risultati basati sulla “cultura medio-bassa” della massa dei programmatori USA dove conta più la velocità di sviluppo che la qualità intrinseca del software: quindi codice voluminoso, eccessivamente complesso, basato su pattern standardizzati che uno sviluppatore veramente esperto riconosce come inefficienti.
Quando si tratta di ottimizzazione, architetture semplici basate su approcci non convenzionali, soluzioni eleganti a problemi specifici, l’AI può diventare più un ostacolo che un aiuto, come sto sperimentando in questi giorni. In qualche decina di minuti mi ha creato una applicazione web con un look elegante e perfettamente funzionante. Ma poi è andata nel pallone quando ho cercato di aggiungere funzionalità particolari, basate su approcci che secondo l’AI nessuno ha mai utilizzato. E anche su problemi banali ho dovuto intervenire suggerendo all’AI soluzioni estremamente semplici invece di contorsioni funamboliche da programmatore dilettante.
Questo è il vero problema dell’AI, confermato anche da una ricerca di Apple, non certo le allucinazioni: l’AI conosce praticamente tutto quello che è stato fatto al mondo, ne ha assorbito la logica ed è in grado di riapplicarla perfettamente a casi analoghi. Quando invece c’è una logica completamente nuova mai vista prima, l’AI ha un livello di intelligenza pari a zero: è il risultato ottenuto proprio da Apple nei suoi test. In conclusione l’AI non pensa in modo creativo, ma applica tutti i modelli di pensiero già noti esistenti al mondo.
E devo anche aggiungere che chi la vuole usare per sviluppare software deve armarsi di pazienza infinita, perché le sue continue raccomandazioni su “best practices” elementari mostrano il limite di un sistema allenato su milioni di righe di codice mediocre e storie di errori da dilettanti: riproduce la mediocrità diffusa, non l’eccellenza.
Conclusione
L’intelligenza artificiale sta facendo da specchio spietato alle nostre vite professionali. Chi ha costruito carriere su attività prive di valore aggiunto reale si trova ora di fronte alla verità. Chi invece ha sempre puntato su creatività, innovazione e competenze complesse scopre nell’AI un alleato formidabile.
Il malessere diffuso non è un disturbo psicologico da curare: è il naturale risultato di un mondo del lavoro che per troppo tempo ha pagato persone per attività di scarsa utilità, attività che le macchine possono fare meglio.
Quindi la vera domanda non è “come curare l’ansia da AI”, ma “come sviluppare finalmente competenze che servano a gestire la macchina, anziché esserne gestiti”. E poi ovviamente usare l’AI come un tool meraviglioso, non come un sostituto del cervello.