Trump torna in Asia: con Takaichi nasce la nuova alleanza del Pacifico

| 28/10/2025
Trump torna in Asia: con Takaichi nasce la nuova alleanza del Pacifico

Donald Trump e Sanae Takaichi rinnovano l’asse tra Stati Uniti e Giappone con un piano da 550 miliardi di dollari su difesa, energia e terre rare. Una partnership che mira a contenere la Cina e riscrivere gli equilibri dell’Asia.

Dal rafforzamento militare giapponese all’accordo strategico sulle materie prime critiche, passando per investimenti industriali e diplomazia simbolica: il nuovo asse Washington–Tokyo inaugura una fase decisiva nella competizione globale tra potenze.

Un ritorno che sa di passato e futuro

A Tokyo, Donald Trump ha incontrato la premier giapponese Sanae Takaichi, la prima donna nella storia del Giappone a guidare il governo.
L’incontro, carico di gesti simbolici e dichiarazioni calorose, ha rievocato i tempi dell’asse Trump–Abe, quando la diplomazia americana trovava nel Giappone un alleato solido, personale e prevedibile.

Ma questa volta la posta in gioco è più alta.
In un’Asia segnata dalla rivalità tra Stati Uniti e Cina, l’alleanza con Tokyo rappresenta un pilastro strategico della nuova dottrina trumpiana: rafforzare i legami bilaterali per contenere la sfera d’influenza cinese.
La scelta di Takaichi di accelerare il riarmo e rilanciare gli investimenti bilaterali con Washington segna il ritorno a un modello di realpolitik che rimette la sicurezza e la potenza industriale al centro della politica estera.

Sanae Takaichi, l’erede di Shinzo Abe

Per comprendere il significato politico di questo incontro bisogna guardare alla figura di Sanae Takaichi.
Sessantatre anni, conservatrice, tecnocratica, formatasi nell’orbita del defunto Shinzo Abe, Takaichi incarna l’anima più assertiva del Partito Liberal Democratico.
Il suo governo, seppur giovane, si muove su un terreno familiare: quello di un Giappone che non vuole più essere potenza solo economica, ma anche militare e strategica.

La premier ha raccolto il testimone di Abe non solo sul piano politico, ma anche personale.
Durante l’incontro, ha consegnato a Trump un dono altamente simbolico: il putter appartenuto ad Abe, il leader che aveva intrecciato con Trump un rapporto di fiducia costruito a colpi di golf, pragmatismo e visione geopolitica.
È una continuità che va oltre il gesto cerimoniale: Takaichi sta riprendendo il progetto di Abe di ridefinire il ruolo del Giappone come potenza attiva nella sicurezza globale, svincolandolo dal pacifismo costituzionale e riavvicinandolo a Washington in chiave strategica.

Difesa e sicurezza: il nuovo volto del Giappone

Al centro del colloquio tra i due leader c’è la nuova strategia di difesa giapponese, che prevede di portare la spesa militare al 2% del PIL entro il 2027 — un livello mai raggiunto dal dopoguerra.
Per un Paese che per decenni ha limitato la propria proiezione militare, la svolta è di portata storica.

Tokyo investirà in sistemi antimissile, capacità spaziali, droni autonomi e intelligenza artificiale militare, con l’obiettivo di diventare il principale pilastro regionale della deterrenza americana contro la Cina e la Corea del Nord.
La premier Takaichi ha sottolineato che la sicurezza giapponese “non può più dipendere dalla stabilità altrui” e ha promesso di “accelerare la modernizzazione delle Forze di autodifesa”.

Trump, dal canto suo, ha definito l’impegno del Giappone “una prova di forza e responsabilità”, lodando Takaichi per “la visione coraggiosa in un momento in cui il mondo ha bisogno di leader determinati”.

In realtà, dietro i toni cerimoniali, si cela un nuovo equilibrio di potere: gli Stati Uniti delegano parte della responsabilità di sicurezza regionale al Giappone, mentre Tokyo ottiene maggiore autonomia decisionale e accesso diretto a tecnologie strategiche americane.

L’accordo economico: un’alleanza da 550 miliardi di dollari

Parallelamente al fronte della sicurezza, il vertice di Tokyo ha prodotto un pacchetto economico senza precedenti.
Giappone e Stati Uniti hanno firmato un piano congiunto da 550 miliardi di dollari che prevede:

  • investimenti americani in infrastrutture navali e cantieristica giapponese
  • l’aumento delle importazioni giapponesi di soia, gas naturale e veicoli statunitensi
  • e una collaborazione tecnologica nei settori dell’intelligenza artificiale e dell’energia avanzata.

Fonti del ministero giapponese dell’Economia hanno confermato che oltre dieci conglomerati nipponici, tra cui Mitsubishi, Hitachi e SoftBank, investiranno più di 400 miliardi di dollari negli Stati Uniti nei prossimi anni, con focus su energia rinnovabile, microchip e automazione industriale.

L’obiettivo è duplice: rafforzare il legame industriale bilaterale e ridurre la dipendenza tecnologica dalla Cina, costruendo una rete di cooperazione produttiva tra i due Paesi.

Le terre rare e la nuova guerra invisibile

Uno dei capitoli più significativi dell’intesa è quello dedicato alle terre rare e ai minerali critici, elementi fondamentali per la produzione di microchip, batterie e armamenti.
Oggi la Cina detiene oltre il 70% della raffinazione mondiale di questi materiali e il controllo della filiera è uno degli strumenti più potenti del suo soft power.

Con l’accordo siglato, Washington e Tokyo si impegnano a sviluppare miniere e catene di approvvigionamento alternative, in partnership con Paesi terzi come Australia, India e Canada.
Saranno, inoltre, create riserve strategiche comuni e un fondo di investimento congiunto per sostenere la ricerca in nuovi materiali magnetici e batterie di nuova generazione.

“È una battaglia silenziosa ma decisiva” ha dichiarato Trump. “Chi controllerà le terre rare controllerà la tecnologia del futuro”.
Takaichi ha aggiunto che “il Giappone non può più permettersi di dipendere da Pechino per l’ossigeno industriale della sua economia”.

L’accordo sulle terre rare segna così l’inizio di una nuova guerra economica a bassa intensità, combattuta non con missili, ma con dati, logistica e risorse naturali.

La diplomazia dei simboli e il fattore umano

Nonostante l’agenda ricca di temi geopolitici, la visita è stata punteggiata da momenti di grande valore simbolico.
Durante il pranzo ufficiale, Takaichi ha offerto riso e manzo americani, accompagnati da verdure di Nara, la sua città natale, in un gesto di equilibrio tra orgoglio nazionale e apertura economica.

Trump ha poi incontrato le famiglie dei cittadini giapponesi rapiti dalla Corea del Nord negli anni Sessanta e Settanta, una ferita ancora aperta nella coscienza collettiva giapponese.

“Gli Stati Uniti sono con loro fino alla fine” ha promesso Trump, lasciando intendere di essere pronto a un nuovo faccia a faccia con Kim Jong Un.

Questi gesti, al di là della retorica, servono a rafforzare la connessione emotiva tra le due nazioni e a riaffermare la leadership americana come garante morale e strategico della regione.

Un’alleanza tra pragmatismo e fragilità politica

La premier Takaichi governa con una maggioranza parlamentare esile, appena due voti sopra la soglia di sicurezza.
Il suo esecutivo è giovane, fragile e sotto pressione da parte dei nazionalisti che chiedono riforme più aggressive.
Il sostegno di Washington rappresenta per lei una legittimazione esterna che rafforza la sua immagine interna come leader determinata e capace di dialogare con la superpotenza americana.

Trump, al contrario, si muove in un contesto di forza: usa la sua figura di “negoziatore globale” per consolidare il consenso interno e riaffermare il suo ruolo di uomo capace di “fare accordi dove gli altri falliscono”.
Il suo stile resta diretto, teatrale, a tratti spregiudicato, ma indubbiamente efficace nel dettare l’agenda mediatica e diplomatica.

La nuova architettura del potere nel Pacifico

Il vertice di Tokyo non è solo un evento diplomatico: è l’atto fondativo di una nuova architettura del potere nel Pacifico.
Stati Uniti e Giappone si propongono come assi gemelli di una coalizione economico-militare che mira a contenere la Cina, stabilizzare la regione e costruire una filiera tecnologica indipendente.

Per Trump, questa alleanza è una prova di forza; per Takaichi, è una questione di sopravvivenza politica.
Ma per entrambi, rappresenta qualcosa di più grande: la possibilità di riscrivere le regole della globalizzazione, riportando il baricentro del potere mondiale verso l’Oceano Pacifico.

In un mondo che corre verso la frammentazione, l’asse Tokyo–Washington appare come un tentativo di riaffermare ordine, ma anche come il simbolo di una tensione irrisolta: la corsa alla potenza in un’epoca in cui il potere non si misura più solo in missili o miliardi, ma in algoritmi, minerali e volontà politica.

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