Starbucks, il colosso del caffè americano da’ vita ad una joint venture da 4 miliardi di dollari con Boyu Capital, cedendo la maggioranza delle sue operazioni in Cina. È il segno di un nuovo equilibrio: i brand globali non lasciano la Cina, ma imparano a conviverci.
Starbucks cambia ricetta: in Cina si vince solo con partner locali
Dopo venticinque anni di espansione solitaria, Starbucks riscrive la propria storia in Cina.
Il gruppo di Seattle ha annunciato la creazione di una joint venture da 4 miliardi di dollari con Boyu Capital, una delle società d’investimento più influenti del Paese, per gestire le proprie attività retail nel mercato cinese.
L’accordo prevede che Boyu detenga fino al 60% della nuova entità, mentre Starbucks conserverà una quota del 40%, oltre ai diritti di licenza e di utilizzo del marchio.
È una mossa che segna una svolta strategica, ma anche un cambio culturale: da multinazionale indipendente a brand condiviso, costruito insieme al capitale cinese.
Dietro il linguaggio misurato del comunicato ufficiale, l’operazione rivela un messaggio più profondo: la Cina non è più una semplice frontiera commerciale per i marchi occidentali, ma un ecosistema da cui dipende il loro futuro.
Dalla conquista al compromesso: l’evoluzione di un impero del caffè
Starbucks è entrata in Cina nel 1999, con il primo store a Pechino, portando con sé il mito americano della socialità urbana in un bicchiere di carta.
Per due decenni, l’espansione è stata travolgente: nel 2015 la Cina era già il secondo mercato mondiale dopo gli Stati Uniti, un traguardo simbolico per un brand nato per esportare l’idea di lifestyle occidentale.
Poi, la curva ha iniziato a piegarsi.
Prima il colpo della pandemia e delle chiusure forzate; poi il ritorno alla normalità in un mercato sempre più saturo e competitivo.
La crescita si è fermata, i profitti si sono assottigliati, e Luckin Coffee, il principale rivale cinese, ha superato Starbucks nel numero di punti vendita.
Il problema non è solo la concorrenza. È il mutamento del consumatore cinese: più digitale, più veloce, più pragmatico.
Mentre Starbucks restava legata all’esperienza premium e ai suoi rituali di “slow coffee”, i competitor locali hanno costruito un ecosistema iperconnesso, fatto di ordini via app, promozioni quotidiane e prodotti su misura per i gusti nazionali.
La mossa Boyu: quando il capitale diventa cultura
La partnership con Boyu Capital è la risposta a questa crisi d’identità.
Boyu, fondo di private equity con legami profondi con il governo cinese e un portafoglio che spazia dal tech ai consumi, porterà ciò che a Starbucks è mancato: una governance locale, relazioni istituzionali solide e sensibilità culturale.
La CEO di Starbucks China, Molly Liu, ha definito l’accordo “un passo per sbloccare pienamente il potenziale del mercato cinese”.
In termini pratici, Boyu gestirà operativamente la rete dei circa 8.000 punti vendita esistenti, mentre Starbucks incasserà royalty costanti sul marchio e potrà concentrarsi sull’innovazione del prodotto e del format.
È una logica di partnership adattiva, più che di cessione: Starbucks resta proprietaria del brand, ma accetta di localizzare il potere operativo.
È una forma di “sinizzazione del capitalismo globale”: le multinazionali non vengono espulse, ma ristrutturate secondo le regole del mercato cinese.
Competizione feroce e nuova normalità del prezzo
Il contesto resta difficile.
Nel quarto trimestre fiscale, Starbucks ha registrato in Cina un +2% nelle vendite comparabili, spinto da un +9% nei volumi, ma con uno scontrino medio in calo.
Per contrastare la pressione di concorrenti come Luckin, Manner e Cotti Coffee, l’azienda ha dovuto imbattersi nella guerra dei prezzi, offrendo promozioni e sconti fino al 30%.
Una scelta inevitabile, ma pericolosa: la strategia “discount” mina il posizionamento premium su cui il marchio ha costruito la propria identità globale.
In un mercato dove il caffè costa meno di una bibita, la sfida non è più vendere, ma restare rilevanti.
Il significato economico: l’era delle multinazionali “parziali”
Starbucks non è l’unico caso.
Negli ultimi anni, molte multinazionali hanno ripensato la propria presenza in Cina, passando da modelli centralizzati a strutture di partnership o co-controllo.
- McDonald’s ha aumentato la propria quota nel business cinese dal 20% al 48%, lasciando la gestione operativa ai partner locali.
 - Burger King, al contrario, ha riacquistato le proprie attività per poi rivenderle a investitori cinesi.
 - Yum! China, che gestisce KFC e Pizza Hut, è oggi un gruppo autonomo quotato a Hong Kong e New York, con una governance interamente locale.
 
La tendenza è chiara: le grandi aziende americane non rinunciano alla Cina, ma si fondono con essa.
È la fine del modello coloniale del brand globale e l’inizio dell’era delle multinazionali ibride, in cui la proprietà è condivisa e l’identità è negoziata.
Dietro la mossa: un messaggio politico e finanziario
La joint venture con Boyu non è solo un’operazione industriale: è un segnale politico.
In un contesto di tensioni commerciali tra Washington e Pechino, Starbucks adotta una strategia di “de-americanizzazione controllata”: mantenere la presenza in Cina riducendo la percezione di estraneità.
Per le autorità cinesi, invece, l’intesa rappresenta un modello virtuoso di cooperazione, dove il capitale straniero si integra invece di contrapporsi.
Starbucks si allinea così al paradigma “in China, for China”: investire nel Paese, ma sotto la lente del pragmatismo locale.
E sul piano finanziario, l’operazione riduce il rischio operativo per il gruppo di Seattle:
cedendo il controllo, ma mantenendo licenze e royalty, Starbucks continuerà a generare flussi di cassa prevedibili, alleggerendo i costi e stabilizzando i rendimenti.
Starbucks 2.0: meno controllo, più continuità
Il CEO Brian Niccol (subentrato dopo l’era Schultz) ha chiarito l’obiettivo: “la Cina resta il futuro, ma con regole nuove”.
Il gruppo punta ora a raggiungere 20.000-30.000 store, ma con un modello di crescita più flessibile e meno centralizzato.
In un mercato maturo e volatile, la velocità conta più della proprietà.
La mossa Boyu è una scelta di realismo strategico.
L’azienda che ha inventato il “caffè come esperienza” ha capito che, in Cina, l’esperienza non basta più: serve un’architettura locale capace di muoversi al ritmo del Paese.
Il caffè come simbolo del nuovo ordine economico
La storia di Starbucks in Cina racconta qualcosa che va oltre il business: è il racconto di come il potere economico globale si stia ribilanciando.
I brand americani, nati per esportare modelli, oggi imparano ad assorbirne di nuovi.
Non è più l’epoca della conquista, ma dell’adattamento.
Il caffè, che per decenni è stato l’aroma della globalizzazione occidentale, diventa ora la metafora del mondo multipolare: un prodotto internazionale, ma con radici locali.
Starbucks non lascia la Cina, semplicemente diventa più cinese.
E nel farlo, forse, inaugura una nuova fase della globalizzazione non fatta di espansione, ma di ibridazione.
Una lezione che molti altri marchi americani, presto o tardi, dovranno imparare.
        