Sovereign Wealth Funds e Banche Centrali: svolta strategica tra attivismo, Cina e crisi del dollaro

RedazioneRedazione
| 14/07/2025
Sovereign Wealth Funds e Banche Centrali: svolta strategica tra attivismo, Cina e crisi del dollaro

Cambia il paradigma globale della gestione patrimoniale sovrana. Gli investitori istituzionali più potenti del mondo si muovono verso strategie attive, diversificazione valutaria e innovazione asiatica. Sullo sfondo, le incognite legate a debito sovrano, clima e geopolitica.

In un mondo sempre più segnato da volatilità geopolitica, deglobalizzazione e transizioni sistemiche, i fondi sovrani e le banche centrali globali – che insieme amministrano oltre 27 trilioni di dollari – stanno ridefinendo i propri approcci di investimento. È quanto emerge dall’ultima survey Invesco 2025, che mette a fuoco le nuove priorità delle istituzioni finanziarie pubbliche.

Dall’investimento passivo all’active management: il ritorno dell’intelligenza umana

Secondo Rod Ringrow, responsabile per gli enti pubblici presso Invesco, i fondi con asset superiori ai 100 miliardi di dollari stanno progressivamente abbandonando la logica del “buy and hold” tipica della gestione passiva, a favore di un approccio attivo più reattivo e adattabile. In un contesto in cui “il prevedibile non è più la norma”, la capacità di analisi, selezione e tempismo ritorna centrale.

Nel 2024 i fondi sovrani hanno registrato un rendimento medio del 9,4%, tra i più alti mai rilevati dal sondaggio. Questo risultato premia la capacità di interpretare nuovi driver di mercato, anche in un contesto segnato da incertezza strutturale.

Cina e tecnologia: il ritorno dell’urgenza strategica

Il report Invesco restituisce un segnale che sfida i presupposti dominanti della geopolitica finanziaria: nonostante il deterioramento delle relazioni tra Pechino e Washington, i fondi sovrani globali stanno riallocando capitale verso l’ecosistema tecnologico cinese, in quella che può essere letta come una mossa di pragmatismo strategico. La logica dell’isolamento o del disaccoppiamento cede il passo a una logica di engagement selettivo, ad alta intensità tecnologica.

Il dato è eloquente: il 60% dei fondi sovrani dichiara di voler aumentare l’esposizione verso asset cinesi nei prossimi cinque anni, concentrandosi su settori considerati abilitanti per l’economia globale del XXI secolo:

  • Semiconduttori, dove Pechino accelera la costruzione di una supply chain nazionale autonoma, in risposta ai blocchi imposti dagli Stati Uniti
  • Cloud e AI, dove emergenti unicorni tecnologici – come Baidu, Tencent, iFlytek o DeepSeek AI – stanno scalando in modo competitivo
  • Veicoli elettrici e rinnovabili, dove attori come BYD, CATL e LONGi Solar definiscono già gli standard globali di prezzo, efficienza e scala.

Sorprendente è il dato che arriva dagli Stati Uniti, dove il 73% dei fondi sovrani nordamericani (nonostante le tensioni bilaterali e l’aumento del protezionismo tecnologico) segnala l’intenzione di rafforzare l’esposizione alla Cina. Un paradosso solo apparente, che rivela un fenomeno crescente di “FOMO istituzionale”: la paura, razionalmente fondata, di restare esclusi da un polo tecnologico alternativo alla Silicon Valley.

In altre parole, la Cina viene oggi considerata non più (solo) un rischio geopolitico, ma un asset strategico irrinunciabile. Il suo ecosistema tech è visto come:

  • un moltiplicatore di rendimento in un contesto di bassa crescita e rendimenti compressi
  • un laboratorio di innovazione scalabile, dove la simbiosi tra pubblico e privato accelera lo sviluppo di tecnologie frontier
  • una piattaforma di resilienza globale, specie nei settori critici per la sicurezza energetica, climatica e digitale.

Naturalmente, questa riallocazione di capitale avviene con consapevolezza del rischio normativo, reputazionale e sanzionatorio e spesso attraverso veicoli indiretti o partnership locali. Ma il segnale strategico è netto: l’idea di una Cina “investibile” solo nel breve termine o solo per l’export è superata. Oggi la Cina viene letta come un’infrastruttura cognitiva e tecnologica globale.

Private credit e stablecoin: gli asset alternativi conquistano spazio strategico nei portafogli sovrani

L’indagine Invesco evidenzia un cambio strutturale nell’allocazione del capitale da parte dei fondi sovrani: la spinta verso asset alternativi non è più episodica o opportunistica, ma rappresenta ormai una direttrice strategica di lungo periodo, volta a garantire rendimento non correlato, protezione contro l’inflazione e resilienza nei cicli avversi.

Private Credit: la nuova ancora di stabilità?

Il credito privato (private credit) – ovvero prestiti diretti a imprese non quotate, al di fuori dei canali bancari tradizionali – è stato adottato dal 73% dei fondi sovrani, con oltre il 50% che dichiara di aumentare attivamente la propria esposizione. Questo trend riflette almeno tre dinamiche convergenti:

  • Disintermediazione bancaria: in un contesto di regolamentazione stringente sul sistema bancario, il private credit si è affermato come canale alternativo per finanziare PMI, M&A, infrastrutture e real estate.
  • Rendimento extra-premium: rispetto ai titoli investment grade tradizionali, il credito privato offre uno spread aggiuntivo significativo, giustificato da illiquidità, struttura e risk underwriting
  • Protezione nei cicli avversi: la contrattualizzazione diretta e la flessibilità nella gestione del rischio fanno del private credit uno strumento difensivo in scenari di tassi elevati, volatilità o recessione tecnica.

Per i fondi sovrani, si tratta anche di una leva per sostenere lo sviluppo economico interno (soprattutto nei mercati emergenti), stimolando il credito verso settori strategici non serviti dalla finanza tradizionale.

Stablecoin: riserva digitale emergente

Sul fronte degli asset digitali, il report segnala una crescente attenzione delle banche centrali e dei fondi sovrani dei Paesi emergenti verso le stablecoin, considerate come potenziale componente di portafoglio e – in prospettiva – strumento monetario complementare.

  • Le stablecoin ancorate al dollaro (es. USDC, USDT) vengono viste come piattaforme liquide, trasparenti e interoperabili, utili per transazioni cross-border, gestione della liquidità e diversificazione tecnologica
  • Pur restando dietro al bitcoin in termini di preferenze complessive (75% dei fondi manifesta interesse verso BTC), le stablecoin si posizionano come veicoli più stabili e compliance-friendly, potenzialmente integrabili nei framework regolatori esistenti.

Questo interesse è coerente con la tendenza delle banche centrali a esplorare CBDC (valute digitali di banca centrale), ma anche con il bisogno – soprattutto nei mercati emergenti – di ridurre la dipendenza dal sistema SWIFT e dai vincoli geopolitici legati al dollaro fisico.

Una trasformazione silenziosa, ma dirompente

La crescita del private credit e delle stablecoin rappresenta una trasformazione sistemica nei portafogli istituzionali:

  • Si rafforza il passaggio da investimenti passivi e liquidi a strategic holdings su asset illiquidi, ad alto contenuto tecnologico o contrattuale
  • Si espande la definizione stessa di “riserva”, includendo veicoli ibridi, decentralizzati o alternativi, potenzialmente meno sensibili agli shock macro o geopolitici.

In definitiva, gli asset alternativi non sono più periferici: diventano core pillar di una nuova architettura finanziaria sovrana, che punta a bilanciare rendimento, autonomia e antifragilità.

Il dollaro resta al centro, ma le crepe si moltiplicano

La supremazia del dollaro come valuta di riserva globale appare oggi ancora saldamente ancorata, ma il quadro che emerge dal sondaggio Invesco è tutt’altro che statico. Se da un lato il 78% delle banche centrali ritiene che serviranno oltre vent’anni per assistere all’ascesa di una vera alternativa sistemica, dall’altro cresce un sentimento di fragilità strutturale che sta lentamente modificando il comportamento dei detentori istituzionali.

Il debito USA come rischio sistemico latente

Uno degli elementi più critici segnalati dal sondaggio riguarda l’indebitamento pubblico degli Stati Uniti. Oltre il 70% delle banche centrali intervistate ritiene che l’elevato e crescente debito federale stia compromettendo la sostenibilità del dollaro nel lungo periodo.

Nel 2024 il rapporto debito/PIL degli Stati Uniti ha superato il 120%, con stime che indicano una traiettoria ancora ascendente nel prossimo decennio, a causa di:

  • Spese militari in rialzo
  • Costi per l’assistenza sanitaria e sociale
  • Interessi sul debito in aumento per effetto dei tassi elevati

Questa dinamica mette pressione sulla credibilità fiscale americana e alimenta l’ipotesi che, nel medio-lungo periodo, i risparmiatori istituzionali possano cercare alternative parziali per la diversificazione valutaria.

Euro: da promessa a incompiuta

A rafforzare il senso di “monopolio vulnerabile” del dollaro contribuisce anche l’arretramento dell’euro come asset rifugio alternativo:

  • Solo l’11% delle banche centrali considera oggi l’euro in espansione come riserva strategica, contro il 20% registrato nel 2024.

Le ragioni sono molteplici:

  • Assenza di un debito pubblico federale unitario nell’Eurozona
  • Frammentazione politica e fiscale tra gli Stati membri
  • Tassi reali bassi o negativi, che penalizzano l’attrattività della valuta europea come store of value

Inoltre, l’euro resta esposto alla ciclicità del consenso politico europeo, che nei periodi di instabilità (come quelli segnati da tensioni tra Nord e Sud Europa o da movimenti populisti) tende a indebolirne la percezione internazionale.

Tra dollaro debole e assenza di alternative: un dilemma multipolare

Il quadro che emerge è paradossale: da un lato, il dollaro continua a essere dominante perché:

  • È sostenuto dalla profondità e liquidità dei mercati finanziari USA
  • È la valuta chiave nelle transazioni globali, materie prime in primis
  • Gode di un network geopolitico consolidato (NATO, FMI, sistema SWIFT)

Dall’altro, le sue fondamenta fiscali e geopolitiche si stanno incrinando, e non esiste – al momento – una valuta sufficientemente liquida, stabile e neutrale per sostituirlo. Il risultato è un sentiment di dipendenza forzata, che spinge molte banche centrali a:

  • Aumentare la diversificazione valutaria marginale (es. yuan, franco svizzero, dollaro canadese)
  • Introdurre quote strategiche in oro o asset digitali (stablecoin e bitcoin inclusi)
  • Rivalutare i criteri ESG nella composizione delle riserve

Prospettive: dal primato alla gestione dell’egemonia

Il prossimo decennio non sarà, probabilmente, quello della “fine del dollaro”, ma potrebbe segnare l’inizio di una nuova fase:

  • Dall’egemonia incontrastata a un multipolarismo gestito
  • Dalla dominanza valutaria alla coesistenza di riserve complementari

Per gli investitori istituzionali, ciò implica l’esigenza di un modello di riserva più flessibile, dinamico e resiliente, capace di adattarsi a un sistema finanziario globale in transizione.

Tra rischio sistemico e opportunità globale

L’indagine Invesco fotografa un momento di snodo epocale per la finanza sovrana e per la governance macroeconomica globale. In un mondo in cui gli equilibri consolidati – monetari, tecnologici, politici – si stanno erodendo sotto la pressione di crisi simultanee, le istituzioni pubbliche con maggior capacità di allocazione e visione strategica stanno ricalibrando i propri strumenti, obiettivi e orizzonti di investimento.

Il riferimento alle “transizioni sistemiche” non è retorico. I fondi sovrani e le banche centrali si trovano oggi ad agire su quattro assi interconnessi:

  1. Tecnologia: L’adozione accelerata di AI, cloud computing, semiconduttori e digital assets impone nuove priorità allocative, ma anche nuovi strumenti analitici e di risk management. Ignorare o sottostimare la disruption tecnologica equivale a perdere rilevanza e rendimento nel medio periodo.
  2. Geopolitica: La rivalità sino-americana, il riarmo europeo e la riscrittura delle catene globali del valore richiedono scelte sempre più sofisticate. I fondi non sono più meri veicoli finanziari, ma strumenti geopolitici al servizio della stabilità, dell’influenza e della protezione sistemica.
  3. Clima e sostenibilità: La crisi ambientale, connessa al rischio fisico e a quello regolatorio, entra in pieno titolo nella logica di asset allocation. Le strategie Net Zero, gli stress test climatici e le metriche ESG avanzate diventano imperativi non solo etici, ma anche finanziari.
  4. Ordine monetario multipolare: Il dominio del dollaro resta, ma non è più indiscusso. Le preoccupazioni sul debito USA, l’emergere di stablecoin e yuan digitali, l’autonomia valutaria nei Paesi BRICS: tutto concorre a una graduale multipolarizzazione delle riserve che, seppur lenta, sarà inesorabile.

In questo contesto, l’attendismo – inteso come neutralità o gestione passiva del rischio – si rivela una postura insostenibile. Le istituzioni più avanzate stanno già operando una transizione da soggetti “conservatori” a attori adattivi, capaci di integrare resilienza sistemica e rendimento attivo, innovazione e stabilità, apertura e controllo.

In definitiva, la vera posta in gioco non è solo il ritorno finanziario, ma la capacità di contribuire alla scrittura delle nuove regole del capitalismo globale. La finanza pubblica – attraverso i fondi sovrani e le riserve valutarie – è sempre meno un osservatore passivo e sempre più un architetto del nuovo ordine mondiale.

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