Parlare di “hub più potente al mondo” non è solo un’esagerazione. È una illusione pericolosa, che rischia di sviare l’opinione pubblica e di ridurre la credibilità del Paese agli occhi dei partner internazionali. Un’ennesima prova del Ballo del Qua Qua digitale fatto di annunci ad effetto, ma che non hanno corrispondenze.
C’è un’Italia che ama annunciare rivoluzioni prima ancora di costruirne le fondamenta.
L’ultima, in ordine di tempo, è quella del “Q-Alliance”, presentato a Como come, testuali parole, pronunciate da un membro del governo, “…l’hub quantistico più potente al mondo…”. Una definizione che, a leggerla con un minimo di competenza tecnica, appare più come un esercizio di marketing politico di provincia, che come un passo reale verso la sovranità tecnologica.
La boutade di Butti
Secondo quanto dichiarato da Alessio Butti, Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega all’innovazione, Q-Alliance sarebbe “…una prova tangibile della visione italiana sulla sovranità tecnologica…”.
Ma dietro i toni trionfalistici si nasconde una realtà molto diversa.
Non un centro operativo, non un’infrastruttura, non un supercomputer, bensì un semplice Memorandum of Understanding, ripeto un inutile MoU, firmato tra aziende straniere, la canadese D-Wave e la statunitense IonQ, e alcune controparti italiane non meglio specificate. In altre parole: una dichiarazione d’intenti, nessuna rivoluzione industriale, né impegni concreti.
Solo parole.
Un memorandum, come è noto, non è un supercomputer ed esonera le parti da qualunque impegno formale rappresentando una semplice dichiarazione di intenti.
Nel linguaggio diplomatico e industriale, un MoU serve a stabilire la volontà di collaborare, ma non comporta né finanziamenti né impegni operativi. Non vi è quindi nessun “hub quantistico” già nato: soltanto una cornice di ipotetica cooperazione tra due imprese nordamericane.
Confondere questo con la creazione del più potente centro quantistico al mondo è una mistificazione comunicativa, tipica di una certa politica italiana più incline alle narrazioni che ai numeri.
Un comportamento, va precisato, di sapore opposto alla visione pragmatica e concreta della premier e presidente del partito in cui milita lo stesso promotore del MoU.
Sovranità tecnologica o dipendenza tecnologica?
Ancora più paradossale è l’uso insistente del termine “sovranità tecnologica”.
Se i partner principali sono aziende rispettivamente statunitense e canadese, il progetto rischia di trasformarsi al contrario nell’ennesima dipendenza dall’estero e non rappresenta certo alcun passo verso l’autonomia nazionale.
D-Wave e IonQ operano sotto le regole del governo statunitense e dei regimi di controllo sulle esportazioni tecnologiche. L’Italia non diventa più libera, ma più esposta a vincoli extraterritoriali.
Dove sono ricerca, università e industria italiana?
Nel post non si cita un solo nome di università, centro di ricerca o laboratorio italiano coinvolto. Si parla di “100 ricercatori italiani”, ma senza dire chi siano, dove lavoreranno, per chi, con quali fondi e per quali obiettivi.
Nessuna indicazione di budget, nessuna specifica sulle infrastrutture, senza parlare dell’assenza totale di qualsivoglia roadmap.
Nessun riferimento ai programmi europei come EuroHPC o Quantum Flagship, che rappresentano i veri pilastri del calcolo quantistico nel continente.
Insomma, un progetto che si proclama “globale” e “strategico”, nelle parole di Butti, ma che non fornisce alcuna trasparenza sui dettagli operativi.
La retorica al posto della sostanza
Il tono del comunicato istituzionale si muove tra l’enfasi e la retorica, con inutili e spropositate frasi ad effetto come “una dimostrazione di visione e coraggio” o “come nel Rinascimento”.
È un linguaggio più adatto a una convention politica elettorale che a un annuncio governativo o scientifico. Il vero Rinascimento italiano si fondava su scienza, artigianato e concretezza. Qui, al contrario, sembra di assistere a un Rinascimento, sì, ma della retorica d’accatto, dove l’innovazione è evocata come simbolo identitario, con finalità manipolatorie non costruita su progetti chiaramente verificabili.
L’Italia non ha bisogno di slogan, ma di politiche industriali serie.
È questo che occorre, non chiacchiericcio di provincia da Ballo del Qua Qua.
Il Quantum Computing è una delle frontiere tecnologiche più complesse al mondo. Richiede investimenti pluriennali di miliardi di euro, infrastrutture criogeniche, piattaforme di simulazione avanzate e una filiera di talento scientifico che oggi esiste solo in poche aree del mondo: Stati Uniti, Canada, Cina, Giappone e, in Europa, in Germania e Paesi Bassi.
L’Italia, pur avendo ottimi centri di ricerca in fisica teorica e in informatica quantistica, non dispone oggi di un ecosistema industriale in grado di sostenere un hub quantistico globale.
Per questo parlare di “hub più potente al mondo” non è solo un’esagerazione.
È qualcosa di più.
È una illusione pericolosa, che rischia di sviare l’opinione pubblica e di ridurre la credibilità del Paese agli occhi dei partner internazionali.
Meno annunci, più realtà
L’Italia deve certamente investire in tecnologie quantistiche, ma con serietà, visione e continuità.
Servono programmi nazionali coerenti con quelli europei, finanziamenti pubblici stabili, partenariati industriali trasparenti e un forte ruolo delle università.
Solo così si potrà parlare davvero di sovranità tecnologica e non di sovranità immaginaria.
Q-Alliance, così come è stato presentato, non è “…l’hub quantistico più potente al mondo…”.
È piuttosto il simbolo perfetto del provincialismo digitale italiano: molta autocelebrazione, poca sostanza, e nessuna comprensione di cosa significhi davvero costruire il futuro tecnologico di un Paese.
Un’ennesima prova del Ballo del Qua Qua digitale a cui molti, ormai troppi, annunci vogliono addestrarci come si fa con i sistemi di software.
Mai come in questo caso il vero rischio sono le allucinazioni.