Il giudice Mehta salva Chrome e Android, ma impone al colosso di Mountain View di condividere i suoi dati. Una vittoria apparente per Google che apre però una nuova fase competitiva, tra intelligenza artificiale, privacy e regolazione globale.
Per cinque anni Google ha combattuto contro l’accusa di monopolio, temendo la frammentazione del suo impero digitale. La sentenza attesa come la più dura degli ultimi decenni non ha imposto cessioni, ma ha colpito al cuore: l’accesso esclusivo ai dati. Da oggi il gigante californiano resta intatto, ma meno impenetrabile. È l’inizio di una partita diversa, dove il vero terreno di scontro non è più solo la ricerca online, ma la moneta del XXI secolo: l’informazione.
Una vittoria a metà per il gigante di Mountain View
La decisione del giudice distrettuale Amit Mehta è stata accolta come un sollievo dai mercati finanziari. Alphabet, la holding che controlla Google, ha visto le proprie azioni crescere del 7,2% nel trading after hours, mentre Apple, legata a doppio filo al motore di ricerca per i suoi accordi multimiliardari, ha guadagnato un 3%. La ragione è chiara: Chrome e Android restano al loro posto, nessuna separazione forzata all’orizzonte.
Eppure, se l’azienda ha evitato lo smembramento, non è uscita indenne. Per la prima volta, il tribunale ha imposto a Google di aprire il proprio tesoro più prezioso: i dati. È una ferita meno appariscente di una cessione, ma potenzialmente più destabilizzante nel lungo periodo.
L’asimmetria dei dati come leva di potere
Da oltre due decenni Google è sinonimo di accesso all’informazione, ma anche di controllo capillare sull’informazione stessa. Ogni ricerca, ogni clic, ogni interazione alimenta un flusso costante di dati che ha reso possibile la costruzione di un impero pubblicitario senza rivali.
Condividere questi dati con concorrenti significa alterare l’architettura del potere digitale. Per startup di intelligenza artificiale e nuovi motori di ricerca, l’accesso a quel patrimonio può rappresentare la chiave per costruire alternative credibili. Per Google, invece, equivale a scoprire il fianco in un mercato che ha dominato grazie alla sua opacità informativa.
L’irruzione dell’intelligenza artificiale
Un elemento inatteso ha pesato nella decisione del giudice: la rapida ascesa dell’intelligenza artificiale generativa. Chatbot come ChatGPT e nuovi strumenti di ricerca conversazionale stanno ridefinendo la fruizione delle informazioni. Mehta lo ha riconosciuto apertamente, scrivendo che l’antitrust non può ignorare l’effetto dirompente dell’AI sullo status quo.
In questo quadro, imporre a Google la cessione di asset come Chrome o Android è apparso sproporzionato. Al contrario, aprire i dati consente di stimolare un ecosistema in cui la concorrenza si gioca non più solo sulla distribuzione dei browser, ma sulla capacità di innovare nell’analisi e nella restituzione delle informazioni.
Apple e i miliardi che cambiano gli equilibri
La sentenza ha anche confermato un meccanismo cruciale: i pagamenti che Google versa ad Apple – stimati in circa 20 miliardi di dollari l’anno – per restare motore di ricerca predefinito sui dispositivi iOS. Questi accordi non sono stati vietati, ma limitati: non potranno più essere esclusivi.
Si tratta di un compromesso che tutela i colossali flussi finanziari tra i due giganti, ma apre a una possibilità inedita: gli utenti potranno trovare, almeno in teoria, opzioni alternative già integrate nei loro device. Un’apertura simbolica, ma significativa in un mercato dove la forza dell’abitudine è spesso più potente della regolazione.
L’orizzonte della Corte Suprema
La storia, però, non finisce qui. Google ha già annunciato l’intenzione di ricorrere in appello e quasi tutti gli analisti ritengono che il caso finirà davanti alla Corte Suprema. Non a caso, Mehta ha calibrato i suoi rimedi per renderli accettabili a livello più alto, evitando misure radicali che sarebbero state difficili da sostenere.
Questo approccio offre a Google tempo prezioso. Ogni anno guadagnato senza obblighi definitivi significa rafforzare la propria posizione nell’intelligenza artificiale e consolidare l’ecosistema Android-Chrome, la vera spina dorsale del suo dominio.
La moneta del XXI secolo: i dati
La domanda cruciale è se la condivisione dei dati sarà sufficiente a riequilibrare davvero il mercato. A breve termine, i rivali dovranno investire tempo e capitali per trasformare le informazioni in servizi competitivi. Ma nel lungo periodo, la disponibilità di dati potrebbe erodere il vantaggio accumulato da Google, aprendo lo spazio a una nuova generazione di attori digitali.
I dati, del resto, non sono solo un asset economico: sono la nuova moneta geopolitica. Controllarli significa esercitare potere non solo sul mercato, ma anche sulla società e, in ultima analisi, sulla politica globale. La battaglia intorno a Google non è dunque un processo isolato, ma parte della ridefinizione degli equilibri internazionali nella governance digitale.
Una vittoria dal retrogusto amaro
Google ha evitato il peggio: nessuno smembramento, nessuna cessione forzata. Ma il prezzo pagato è l’apertura del suo cuore più prezioso. È una vittoria apparente, con un’ombra lunga sul futuro.
Se i concorrenti sapranno cogliere l’opportunità, Mountain View potrebbe trovarsi a combattere in un terreno nuovo, dove il dominio passato non garantisce più immunità. E mentre l’intelligenza artificiale accelera, la vera domanda è se Google sarà in grado di adattarsi a un mondo in cui l’informazione – la sua materia prima – non è più un privilegio esclusivo, ma un bene condiviso.