L’Asia vista dalla Casa Bianca: il ritorno di un’America che tratta e comanda

| 29/10/2025
L’Asia vista dalla Casa Bianca: il ritorno di un’America che tratta e comanda

Donald Trump in Corea del Sud per chiudere un accordo commerciale con Seul e trattare con Xi Jinping una tregua sui dazi: il tour asiatico segna la rinascita della strategia americana nel Pacifico e una nuova sfida alla Cina.

Dal vertice APEC di Gyeongju ai colloqui di Busan, il viaggio di Trump ridisegna la diplomazia economica statunitense: meno ideologia, più potere contrattuale. Sullo sfondo, il nodo Taiwan, la corsa ai chip e una guerra commerciale che rischia di diventare sistemica.

L’Asia come nuovo centro del mondo

Quando Donald Trump è atterrato a Gyeongju, l’antica capitale del regno di Silla, non stava solo inaugurando l’ultima tappa di un viaggio ufficiale. Stava entrando nel cuore geopolitico del XXI secolo, una regione dove si intrecciano tecnologia, commercio, energia e sicurezza.
Il suo arrivo, poche ore dopo il test di un missile da crociera nordcoreano, ha offerto un contrasto potente: da un lato l’eco delle armi, dall’altro la diplomazia dei mercati.

Trump ha scelto di ignorare la provocazione di Pyongyang, segnalando una priorità chiara: stabilizzare le relazioni economiche con i principali attori asiatici. Per Washington, l’Asia non è più solo un fronte militare: è un ecosistema economico da riconquistare dopo anni di egemonia cinese e incertezze americane.
La Corea del Sud, sede del vertice APEC, diventa così il palcoscenico ideale per una strategia che mescola nazionalismo economico, diplomazia bilaterale e pressione tecnologica.

Busan, il tavolo del compromesso: Stati Uniti e Cina tra tregua e sfida

Il momento più delicato del tour si gioca a Busan, dove Trump incontra Xi Jinping. Ufficialmente, i due leader discutono una riduzione dei dazi americani in cambio dell’impegno cinese a limitare le esportazioni dei precursori chimici del fentanil, sostanza al centro dell’emergenza sanitaria americana.

Dietro questa formula tecnica si nasconde un negoziato strutturale: un tentativo di ridefinire i confini della potenza economica tra Washington e Pechino. Dopo anni di guerra tariffaria, entrambe le potenze riconoscono che il decoupling totale è impraticabile.
La Cina non può rinunciare al mercato americano e gli Stati Uniti non possono davvero tagliare le forniture di componenti strategici provenienti dall’industria cinese.

Tuttavia, la tregua è fragile. Pechino sta accelerando il programma di autonomia tecnologica, investendo su semiconduttori domestici, mentre Washington riorienta gli alleati asiatici in una rete di amicizie economiche condizionate.
È una pace fredda economica, destinata a durare quanto conviene a entrambi. E in questo equilibrio imperfetto, la geopolitica del commercio si sostituisce alla diplomazia tradizionale.

La Corea del Sud tra alleanza e indipendenza

La seconda partita del viaggio si gioca con Seul, un alleato fondamentale, ma sempre più assertivo.
Trump arriva con una proposta precisa: concludere un accordo che prevede 350 miliardi di dollari di investimenti sudcoreani negli Stati Uniti in cambio dell’esclusione dai dazi. Ma la Corea del Sud, pur riconoscendo l’importanza del legame con Washington, rifiuta di apparire come semplice satellite.

Il presidente Lee Jae Myung, durante la cerimonia di benvenuto, consegna a Trump la massima onorificenza nazionale, il Grand Order of Mugunghwa. È un gesto di rispetto, ma anche un messaggio sottile: Seul intende mantenere la propria autonomia strategica, soprattutto nel settore tecnologico e nucleare.
Lee ha chiesto di poter reprocessare combustibile nucleare per uso sottomarino, oggi vietato dagli accordi bilaterali. Una richiesta che evidenzia la volontà della Corea del Sud di emanciparsi progressivamente dal controllo americano sulla sua sicurezza.

In un mondo multipolare, persino gli alleati storici dell’America vogliono essere partner, non pedine. Ed è qui che si misura la sfida più profonda della nuova Realpolitik americana.

Taiwan, chip e la nuova geoeconomia del potere

Nel colloquio con Xi, il tema Taiwan resta il punto più sensibile. Trump ha evitato di affrontarlo apertamente, ma secondo fonti diplomatiche avrebbe ricevuto rassicurazioni informali: nessuna mossa militare sull’isola finché resterà in carica.
Un equilibrio instabile, che riflette la complessità della guerra tecnologica in corso.

Taiwan è il cuore della produzione mondiale di semiconduttori avanzati e, dunque, il vero epicentro della competizione globale. Le restrizioni americane sulle esportazioni di chip Nvidia e componenti strategici verso la Cina non sono solo strumenti economici: sono armi di potere geopolitico.

Ogni microprocessore, ogni wafer, ogni linea produttiva diventa un campo di battaglia silenzioso.
Gli Stati Uniti cercano di mantenere il dominio tecnologico globale, ma rischiano di innescare una corsa all’autosufficienza che potrebbe ridisegnare gli equilibri industriali mondiali.
La recente ripresa delle importazioni cinesi di soia americana, dopo mesi di stallo, suggerisce un desiderio di distensione, ma non cambia la sostanza: la competizione tra Washington e Pechino è sistemica e irreversibile.

Tokyo, Kuala Lumpur e la nuova rete americana in Asia

Il viaggio asiatico di Trump è anche una mappa delle nuove alleanze.
A Tokyo, il presidente americano ha celebrato la leadership di Sanae Takaichi, prima premier donna del Giappone, firmando un piano di 550 miliardi di dollari di investimenti giapponesi negli Stati Uniti.
Un accordo che conferma la strategia americana di attrarre capitali e tecnologie asiatiche come leva per contenere l’influenza cinese.

In Malesia, Trump ha favorito una tregua tra Thailandia e Cambogia, segnale di una rinnovata capacità americana di agire come mediatore regionale.
Non si tratta solo di accordi economici, ma di una diplomazia della stabilità selettiva: Washington offre sicurezza e accesso al mercato in cambio di lealtà economica e cooperazione strategica.

L’Asia diventa così il teatro di una geopolitica delle interdipendenze, in cui gli Stati Uniti cercano di costruire un’architettura di potere non più basata sulle basi militari, ma su flussi di capitale, tecnologia e alleanze condizionate.

La nuova Realpolitik del Pacifico

Con la tappa in Corea del Sud, Trump chiude un tour che è insieme dichiarazione d’intenti e banco di prova.
La sua “dottrina economica”, meno multilaterale, più contrattuale, segna un cambio di paradigma nella politica estera americana. L’idea che gli Stati Uniti possano imporre regole universali è tramontata; al suo posto emerge una logica transazionale, fatta di accordi bilaterali, scambi di favori e scelte calibrate sugli interessi immediati.

È un approccio che molti critici definiscono “cinico”, ma che riflette il mondo com’è, non come vorremmo che fosse.
Il Pacifico, in questa nuova fase, non è più il luogo di un sogno globalista: è il laboratorio del realismo politico del XXI secolo.
Una regione dove la stabilità è precaria, ma il potere è reale.

Il futuro nasce nel Pacifico

Quando Trump lascia l’Asia, porta con sé più domande che risposte. Ma una cosa è certa: la sua missione ha mostrato che la geopolitica contemporanea non si gioca più nei palazzi delle Nazioni Unite, bensì nei porti, nei laboratori e nei mercati finanziari.

Il Pacifico è il nuovo motore del mondo. Ed è lì che si decide non solo chi controllerà le rotte del commercio o la prossima generazione di chip, ma che forma avrà il potere stesso nel secolo digitale.

Se la guerra fredda del Novecento era ideologica, quella del XXI secolo è tecnologica ed economica.
Trump, con la sua diplomazia imperfetta ma pragmatica, sembra averlo capito prima di molti: il futuro non si conquista con i missili, ma con i microchip.

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