La Luna contesa: proprietà, patrimonio e potere nello spazio del XXI secolo

| 13/06/2025
La Luna contesa: proprietà, patrimonio e potere nello spazio del XXI secolo

 
L’estrazione delle risorse lunari solleva interrogativi legali e morali. Mentre le potenze spaziali si muovono in fretta, il diritto internazionale arranca. Servono regole globali chiare per tutelare patrimonio, accesso e coesistenza nello spazio.

Il ritorno sulla Luna: una corsa tra speranze e interessi

Era aprile 2025 e mentre l’attenzione mediatica si concentrava su un volo suborbitale con a bordo la popstar Katy Perry e cinque civili – una trovata pubblicitaria, un simbolo di progresso, forse un diversivo –, alle Nazioni Unite si svolgeva un dibattito ben più silenzioso, ma infinitamente più rilevante: come regolamentare la scoperta, l’estrazione e l’uso delle risorse spaziali.

Le potenze spaziali non nascondono più le loro ambizioni. Il programma Artemis della NASA prevede il ritorno umano sulla Luna entro il 2028; la Cina risponde con l’ILRS – International Lunar Research Station – e mira al 2030. Decine di missioni robotiche sono pianificate, molte delle quali convergono sul polo sud lunare – un’area strategica, ricca di ghiaccio d’acqua e illuminata costantemente. Il motivo? Non solo la sopravvivenza degli astronauti, ma anche la possibilità concreta di estrarre, utilizzare e forse rivendere risorse preziose: idrogeno, ossigeno, elio, minerali.

A differenza dell’epoca della Guerra Fredda, oggi l’accesso allo spazio non è più prerogativa esclusiva degli Stati. Attori privati – aziende, consorzi, start-up – rivestono un ruolo centrale nello sviluppo tecnologico e nell’interesse economico. Le missioni spaziali sono ormai mosse da logiche ibride, in cui ricerca scientifica e business si intrecciano in modo sempre più stretto. Come sottolineano De Zwart et al. (2023), il crescente coinvolgimento del settore privato ha reso improrogabile la definizione di una cornice giuridica che disciplini le attività di sfruttamento delle risorse spaziali senza entrare in contraddizione con il diritto internazionale vigente.

Eppure, il diritto resta indietro. L’attuale cornice normativa – basata sul Trattato sullo spazio extra-atmosferico del 1967 – non affronta con chiarezza la questione cruciale della titolarità delle risorse spaziali. Il vuoto normativo è tale che, come evidenzia lo stesso studio, la corsa allo spazio rischia di trasformarsi in una competizione senza arbitro, dove l’assenza di regole vincolanti favorisce i primi arrivati e alimenta disparità (De Zwart et al., 2023).

È una nuova corsa, sì – ma non solo allo spazio, anche al diritto. Una corsa al potere, alla definizione delle regole. Chi arriva prima, comanda. Chi resta indietro, obbedisce. E in questo scenario, il rischio non è soltanto giuridico, ma profondamente politico.

Le ambiguità del diritto spaziale: tra trattati e silenzi

Esiste un diritto internazionale dello spazio? Sì – esiste, ma è un diritto invecchiato, redatto in un’epoca in cui l’unico confronto spaziale avveniva tra due superpotenze, Stati Uniti e Unione Sovietica. Il Trattato sullo spazio extra-atmosferico del 1967 – ancora oggi il principale strumento giuridico in materia – fu pensato per impedire l’estensione della sovranità nazionale nello spazio: secondo l’articolo II, “nessun corpo celeste può essere soggetto a appropriazione nazionale mediante rivendicazione di sovranità, uso o occupazione, o con qualsiasi altro mezzo”. L’articolo I aggiunge che “l’esplorazione e l’uso dello spazio extra-atmosferico… deve avvenire a beneficio di tutti i Paesi”, una formulazione suggestiva, ma non operativa.

Ma cosa significa, concretamente, “beneficio comune”? E soprattutto: tale beneficio implica la possibilità di sfruttamento individuale? È lecito estrarre risorse da un corpo celeste e rivendicarne la proprietà? La risposta, oggi, è tutto fuorché chiara. E l’ambiguità normativa si è rivelata fertile terreno per interpretazioni divergenti.

Secondo una lettura strettamente letterale, il Trattato vieta l’appropriazione dei territori ma non menziona le risorse in sé. Questo ha aperto la strada a una linea interpretativa sempre più accettata da alcune potenze spaziali, secondo cui il principio di non-appropriazione dei suoli non impedisce la proprietà privata dei materiali estratti. Così, si è imposto un principio pragmatico: “ciò che si estrae, si possiede” (De Zwart et al., 2023). Una posizione sostenuta – seppur implicitamente – anche da diversi atti normativi nazionali.

A rafforzare questa ambiguità è l’inapplicabilità del Moon Agreement del 1979. Questo trattato, redatto per colmare le lacune del testo del 1967, introduceva un concetto forte e avanzato: la Luna e le sue risorse dovevano essere considerate “patrimonio comune dell’umanità”, e la loro gestione futura affidata a un regime internazionale. Tuttavia, tale approccio fu rifiutato dai principali attori spaziali, e il trattato non è mai entrato in vigore in modo significativo. A oggi, è stato ratificato da soli 18 Paesi – nessuno dei quali dotato di un programma spaziale avanzato. Gli Stati Uniti, in particolare, lo ritengono non solo non vincolante, ma incompatibile con lo sviluppo commerciale delle attività lunari (De Zwart et al., 2023).

Questa situazione ha creato un pericoloso vuoto normativo, una zona grigia in cui si muovono tanto gli Stati quanto gli attori privati. Come osservano De Zwart et al. (2023), l’assenza di un quadro giuridico chiaro e condiviso sta portando a una frammentazione della governance spaziale, in cui le decisioni più importanti sono prese in sede nazionale o bilaterale, spesso con scarsa trasparenza e senza un’autorità sovranazionale che garantisca equità.

Leggi nazionali e Accordi Artemis: quando il soft law detta il ritmo

Il 2015 segna una svolta: il Commercial Space Launch Competitiveness Act degli Stati Uniti riconosce esplicitamente il diritto dei cittadini americani di estrarre e commercializzare risorse spaziali. Seguono Lussemburgo, Emirati Arabi Uniti e Giappone, ognuno con leggi che legittimano la titolarità privata di ciò che viene recuperato nello spazio.

Ma non è tutto. Con gli Artemis Accords, promossi dalla NASA nel 2020 e sottoscritti da oltre 20 Paesi, si avvia una forma di governance “morbida”: principi condivisi – interoperabilità, sostenibilità, trasparenza, cooperazione –, ma non vincolanti. Tra questi, spicca il concetto di safety zones: aree di rispetto temporanee attorno a infrastrutture lunari, pensate per evitare interferenze e incidenti (De Zwart et al., 2023).

Un’idea, questa, che oscilla tra necessità operativa e rivendicazione di fatto. Perché, se una missione può vietare l’accesso a un’area, allora sta forse esercitando una forma di controllo? Una nuova forma di proprietà, magari non dichiarata – ma reale?

Il dilemma è evidente, e l’assenza di un’autorità regolatrice centrale lo acuisce. Come in ogni corsa non arbitrata, la tentazione di barare – o quantomeno di spingere le regole al limite – è altissima.

La memoria impressa sulla polvere lunare

Tra crateri e distese silenziose, la Luna conserva tracce della nostra storia. Lì riposano la sonda Luna 2, le orme di Neil Armstrong, il rover Chang’e, e oltre cento altri siti di attività umana. Nessun vento le ha cancellate, nessuna pioggia le ha consumate. Sono lì – fisse, immobili, eterne.

Ma per quanto ancora?

Un singolo atterraggio fuori traiettoria, un rover impazzito, una trivella troppo vicina – e questi siti potrebbero sparire per sempre. Eppure, nessuna legge vincolante oggi li protegge. Non esiste, per ora, un’estensione dello statuto UNESCO oltre l’atmosfera terrestre.

Nel 2011 la NASA propose zone di rispetto attorno ai luoghi storici americani, ma solo come linee guida volontarie. L’analogia con i siti patrimonio dell’umanità è chiara – e urgente. Anche il Moon Village Association propone, tra le sue Best Practices, un registro internazionale delle attività lunari, in cui annotare missioni, obiettivi, durate e posizionamenti (De Zwart et al., 2023). Un tentativo di armonizzare l’accesso e prevenire interferenze – un primo passo verso la convivenza.

Perché la Luna, oggi, non è solo un territorio da sfruttare – è anche una memoria da preservare.

Costruire la legge nello spazio: verso una governance condivisa

Il futuro si scrive ora – tra ambizioni divergenti, legislazioni parallele, progetti industriali e speranze condivise. E il diritto? Il diritto insegue – ma può ancora guidare.

Il gruppo di lavoro giuridico delle Nazioni Unite (Working Group on Legal Aspects of Space Resource Activities) ha intrapreso un piano quinquennale, con l’obiettivo di produrre entro il 2027 una serie di principi per la regolamentazione internazionale delle risorse spaziali. Un’impresa ambiziosa, sostenuta anche da iniziative come i Building Blocks dell’Hague Working Group, che propongono regole flessibili ma efficaci: autorizzazione statale, sicurezza delle operazioni, rispetto ambientale, condivisione dei benefici (De Zwart et al., 2023).

Tuttavia, il rischio è che il diritto resti indietro, ancora una volta. Le missioni si moltiplicano, i contratti commerciali avanzano, le tecnologie accelerano. Ogni ritardo normativo aumenta la possibilità di conflitto – non solo tecnico, ma politico, simbolico, culturale.

Dobbiamo scegliere. Possiamo lasciare che lo spazio si trasformi in una nuova frontiera del “primo arrivato” – oppure costruire, con fatica e consenso, una cornice giuridica condivisa. Una cornice che protegga i più deboli, valorizzi il patrimonio comune, e garantisca che le ricchezze del cielo non diventino il monopolio di pochi. Perché, in fondo, lo spazio ci appartiene. A tutti. E per sempre.

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