Le proteine vegetali sono percepite come salutari e sostenibili. Tuttavia, recenti studi dimostrano che molti prodotti ultra-processati a base vegetale possono presentare criticità nutrizionali, contraddicendo le attese salutistiche e ambientali.
L’ascesa delle proteine vegetali: tra mito e realtà
Negli ultimi anni, la transizione verso una dieta più vegetale ha assunto proporzioni quasi ideologiche — sostenuta da un fervore culturale crescente, alimentata da campagne promozionali pervasive e, soprattutto, da una fiducia quasi cieca nella superiorità morale, sanitaria ed ecologica delle fonti proteiche non animali. Mangiare “plant-based” è diventato, per molti, più di una scelta nutrizionale: è un’affermazione di valori, un gesto simbolico, un segno distintivo di consapevolezza.
Questo slancio, in parte giustificato da preoccupazioni ambientali fondate — il cambiamento climatico, il consumo di risorse, le emissioni legate alla zootecnia intensiva — ha contribuito a un’espansione impressionante del mercato dei sostituti vegetali: burger dalle consistenze sofisticate, formaggi che fondono quasi come quelli originali, snack croccanti e saporiti, salse dense e colorate. Tutti, rigorosamente, etichettati come “vegani”, “100% vegetali” o “plant-based” — etichette che, per molti consumatori, equivalgono automaticamente a “sano”, “leggero”, “benefico”.
Tuttavia, è proprio qui che nasce la distorsione. Perché questo entusiasmo, così vivo e contagioso, ha spesso travalicato i confini della realtà scientifica. Un recente studio condotto nei mercati portoghese e britannico ha sollevato un velo inquietante: oltre il 95% dei prodotti vegetali ultra-processati analizzati — parliamo di formaggi, insaccati, hamburger e simili — non rispetta i criteri minimi stabiliti dalla European Integrated Promotion for Healthy Eating Strategy (EIPAS), eccedendo in sale, zuccheri o grassi (Monteiro et al., 2025). Una percentuale altissima, che dovrebbe far riflettere.
E allora ci si chiede: può davvero un prodotto vegetale — carico di additivi, esaltatori di sapidità, oli raffinati e zuccheri nascosti — essere considerato salutare solo perché privo di ingredienti animali? È possibile che, nella corsa a rimpiazzare le proteine tradizionali, si sia costruita un’illusione, una mitologia moderna che confonde origine vegetale con qualità nutrizionale?
L’evidenza suggerisce di sì. Perché un alimento vegetale altamente raffinato può, in alcuni casi, risultare più deleterio per la salute rispetto a uno animale minimamente trasformato — pensiamo, ad esempio, a un semplice yogurt naturale intero rispetto a un dessert vegano aromatizzato e dolcificato. In questo contesto, diventa centrale una distinzione cruciale: quella tra cibo “intero” e “ultra-processato”, tra la pianta nella sua forma essenziale — legume, cereale, frutto secco — e la sua controparte industriale, ricostruita e aromatizzata.
Non si tratta, dunque, di demonizzare la scelta vegetale in sé — che resta, se ben calibrata, una strategia nutrizionale promettente. Si tratta piuttosto di recuperare uno sguardo critico, informato, capace di distinguere tra promessa e sostanza, tra apparenza e realtà. Perché non tutto ciò che è “verde”, purtroppo, è anche “virtuoso”.
Ultra-processati e salute: il lato oscuro del plant-based
La classificazione NOVA dell’Organizzazione Mondiale della Sanità identifica i cibi ultra-processati come quelli che, pur derivando da ingredienti naturali, sono sottoposti a processi industriali complessi e arricchiti con additivi, emulsionanti, coloranti e aromi artificiali. Tali alimenti non solo perdono gran parte delle loro qualità nutritive originali, ma acquisiscono un profilo metabolico spesso disfunzionale.
L’analisi condotta da Monteiro et al. (2025) rivela che la maggior parte dei formaggi e salumi vegetali presenti nei supermercati europei contiene quantità elevate di sodio e grassi saturi, superando in molti casi i livelli presenti nei corrispettivi animali. In Gran Bretagna, solo lo 0,6% dei prodotti plant-based rispetta i limiti consigliati per sale e zuccheri. Nel mercato portoghese, la percentuale sale a un modesto 1,3%.
Questi dati smentiscono l’idea secondo cui il passaggio al vegetale garantirebbe automaticamente una dieta più sana. Al contrario, emerge con forza il rischio di una nuova forma di “greenwashing alimentare”, dove la veste vegetale viene utilizzata come strumento di marketing, a discapito della qualità nutrizionale.
Il caso della soia: eccellenza nutrizionale o vittima dell’industria?
Tra tutte le fonti proteiche vegetali, la soia rappresenta una delle più promettenti e studiate. Con un punteggio PDCAAS (Protein Digestibility Corrected Amino Acid Score) pari a 1.00, la soia e i suoi derivati — come tofu, tempeh e latte di soia — sono considerati comparabili per qualità proteica alle fonti animali (Qin et al., 2022).
La soia non solo è ricca di amminoacidi essenziali, ma contiene anche isoflavoni con potenziali effetti benefici sulla salute cardiovascolare, sulla densità ossea e sui sintomi della menopausa. Studi clinici hanno evidenziato una correlazione tra l’assunzione di 25 g al giorno di proteine della soia e una riduzione significativa del colesterolo LDL (Qin et al., 2022).
Tuttavia, anche in questo caso, il livello di processamento è determinante. I prodotti a base di soia fermentata, come miso e natto, offrono benefici superiori rispetto a quelli derivati da proteine isolate e trattate industrialmente. L’eccessiva raffinazione, infatti, può ridurre la biodisponibilità degli amminoacidi, eliminare fibre e micronutrienti, e introdurre additivi discutibili. Inoltre, secondo Qin et al. (2022), l’abuso di proteine isolate di soia può compromettere la funzione epatica e renale in soggetti predisposti, sollevando ulteriori preoccupazioni.
Educazione alimentare e trasparenza: la chiave per scelte consapevoli
Alla luce di quanto emerso, diventa essenziale promuovere un’educazione alimentare che superi le apparenze delle etichette e l’incanto del marketing — un’educazione che formi, che informi, che illumini. Il consumatore deve poter distinguere, con chiarezza e senza ambiguità, tra un burger vegetale saturo di additivi e un piatto semplice, genuino, composto da legumi interi cucinati in casa — con cura, con consapevolezza. L’informazione, vera e puntuale, è il primo passo verso quella consapevolezza che trasforma la tavola in uno strumento di salute, e l’alimentazione in un gesto sostenibile.
Anche le istituzioni, del resto, hanno una responsabilità cruciale. La revisione delle etichette nutrizionali — più chiare, più leggibili, più sincere —, l’obbligo di dichiarare il livello di processamento, e l’incentivo alla riformulazione industriale, sono misure che possono, nel loro insieme, contribuire a costruire un mercato alimentare più trasparente, più onesto, più sano. In parallelo, urge una rinnovata attenzione scientifica alla qualità delle proteine: non più soltanto grammi e numeri, ma valutazioni basate sul profilo amminoacidico, sulla digeribilità, sull’impatto reale sul microbiota intestinale.
Solo così potremo restituire al concetto di proteina vegetale il suo significato autentico — non imitazione della carne, non simulazione culinaria, ma proposta autonoma, alternativa e completa. In definitiva, il futuro delle proteine vegetali non potrà mai risiedere nella loro capacità di somigliare alla carne, bensì nella loro reale e comprovata capacità di nutrire meglio, rispettare il pianeta e valorizzare — senza travestimenti — la biodiversità.