Permessi lenti, costi più alti rispetto ai partner europei e scarsa capacità di accumulo: Roma rischia di mancare i target di decarbonizzazione al 2030. Una sfida che intreccia burocrazia, finanza, politica industriale e credibilità internazionale.
Il verdetto è severo: l’Italia sta accumulando un ritardo di dieci anni sulla tabella di marcia della transizione energetica. Secondo lo studio Edison–TEHA, questo gap potrebbe impedire al Paese di centrare gli obiettivi climatici fissati da Bruxelles per il 2030. Non si tratta solo di ambiente: a rischio ci sono investimenti, filiere industriali e la posizione geopolitica dell’Italia in una partita che l’Europa considera cruciale per la propria competitività globale.
Un decennio di ritardo che pesa come un secolo
Il dato emerso dal report è inequivocabile: dieci anni di ritardo nello sviluppo di infrastrutture per rinnovabili e sistemi di accumulo. Una distanza che in termini storici potrebbe sembrare contenuta, ma che nel contesto della transizione climatica rappresenta un baratro. L’Unione Europea ha fissato obiettivi stringenti di riduzione delle emissioni per il 2030 e ogni anno perso equivale a un aggravio esponenziale di investimenti e sforzi futuri. Per l’Italia, restare indietro significa rischiare non solo sanzioni o penalità, ma soprattutto la perdita di credibilità all’interno del processo decisionale europeo.
Burocrazia e autorizzazioni: il freno invisibile
Il nodo più critico riguarda le autorizzazioni. Ottenere i permessi per nuovi impianti fotovoltaici, eolici o di accumulo in Italia può richiedere anni, il doppio rispetto alla media europea. Questa lentezza genera un effetto domino: scoraggia gli investitori internazionali, alza i costi e riduce la competitività del sistema energetico nazionale. Paesi come la Spagna e la Germania hanno introdotto procedure accelerate e sportelli unici digitali, mentre in Italia resta una giungla di competenze tra Stato, Regioni e Comuni. Dal punto di vista giuridico, la questione mette a nudo un conflitto costante tra tutela ambientale e interesse pubblico: un equilibrio che troppo spesso si traduce in paralisi.
Fotovoltaico: il paradosso del Paese del sole
Il caso del fotovoltaico è emblematico. Nonostante l’Italia disponga di uno dei più alti indici di irraggiamento solare in Europa, i costi dei progetti solari sono fino al 20% superiori rispetto a Francia, Germania e Spagna. Le cause sono strutturali: congestione della rete elettrica, scarsità di terreni disponibili e iter autorizzativi interminabili. Questo paradosso si traduce in un grave svantaggio competitivo, che vanifica uno dei principali asset naturali del Paese. Senza interventi mirati sulla rete e sul quadro normativo, il fotovoltaico italiano rischia di restare un gigante potenziale ma un nano industriale.
Idroelettrico di pompaggio: il tesoro nascosto
Lo studio Edison–TEHA individua nell’idroelettrico di pompaggio una risorsa sottovalutata. Con 56 nuovi siti individuati e un potenziale stimato di 13,6 GW, l’Italia potrebbe sviluppare una rete di accumulo strategica per stabilizzare la produzione rinnovabile. Si tratta di una tecnologia collaudata e già ampiamente utilizzata in Svizzera e Austria, che consente di bilanciare le fluttuazioni di sole ed eolico garantendo resilienza alla rete. Eppure, nonostante questo potenziale, l’idroelettrico di pompaggio resta in gran parte inutilizzato, ostaggio di iter burocratici e mancanza di investimenti adeguati.
Nucleare di nuova generazione e carbon capture: la sfida tecnologica
Il rapporto non si limita a indicare i ritardi, ma propone anche una via d’uscita. La combinazione di idroelettrico di pompaggio, nucleare avanzato e tecnologie di cattura e stoccaggio della CO₂ potrebbe generare fino a 190 miliardi di euro di valore aggiunto entro il 2050. Si tratta di un mix che, se implementato con coerenza, trasformerebbe la transizione verde in una leva di crescita economica e industriale. L’Italia, però, si scontra con un tabù politico sul nucleare e con una filiera tecnologica della carbon capture ancora embrionale. La vera sfida sarà, dunque, conciliare consenso politico, innovazione tecnologica e investimenti privati.
Sovranità energetica e dipendenza tecnologica
Il CEO di Edison, Nicola Monti, ha sintetizzato il problema: “Dobbiamo ridurre la nostra dipendenza da Paesi terzi e costruire partnership europee sulle nuove tecnologie”. La questione non è solo ambientale, ma geopolitica. Dipendere dalle importazioni asiatiche di pannelli solari o da turbine eoliche prodotte fuori dall’UE espone l’Italia a rischi strategici. Per questo il Green Deal europeo va interpretato anche come un progetto di politica industriale: costruire filiere continentali autonome in grado di ridurre la vulnerabilità e garantire indipendenza tecnologica.
Opportunità economica e rischio politico
Il mancato raggiungimento degli obiettivi 2030 avrebbe conseguenze pesanti. Da un lato, l’Italia rischia di perdere fondi europei e di subire penalità. Dall’altro, potrebbe restare ai margini delle nuove filiere industriali che si stanno formando attorno alla transizione. Al contrario, un’accelerazione tempestiva trasformerebbe la sfida in un’opportunità straordinaria: attrarre capitali, rafforzare la competitività e posizionare l’Italia come hub mediterraneo dell’energia pulita. Il bivio è chiaro: arretrare significa pagare il prezzo dell’inazione, avanzare significa conquistare un ruolo da protagonista nella nuova economia verde.
La finestra dei prossimi cinque anni
Il rapporto Edison–TEHA non lascia spazio a dubbi: i prossimi cinque anni saranno decisivi. O l’Italia riuscirà a riformare la burocrazia, a ridurre i costi e a puntare con decisione su innovazione e accumuli, oppure mancherà gli obiettivi fissati dall’UE e comprometterà la propria posizione industriale e politica. La transizione non è più una questione tecnica o ambientale: è il terreno su cui si gioca la credibilità internazionale del Paese e la sua capacità di attrarre investimenti nel futuro.