La grande illusione dell’Italia digitale. Mentre il reale si scontra con il virtuale, tra annunci e corse in avanti

| 15/12/2025
La grande illusione dell’Italia digitale. Mentre il reale si scontra con il virtuale, tra annunci e corse in avanti

Annunci roboanti e post compulsivi sui social, ma il risultato è sotto gli occhi di tutti: annunci che rimangono tali, leggi simboliche e programmi costosi che non hanno prodotto alcuna trasformazione sistemica. Sostegno alle imprese italiane inesistente. E la sovranità tecnologica tanto cara in campagna elettorale? È un tema che non si costruisce per decreto, né attraverso leggi che regolano mercati inesistenti o investimenti che non vengono verificati nei risultati. Finché la trasformazione digitale resterà il capitolo più debole dell’azione di governo, l’Italia non sarà un attore del cambiamento tecnologico globale. Intanto investimenti nazionali, imprese e competenze italiane al palo.

Il dibattito tecnologico italiano ha raggiunto una fase tanto ridondante quanto pericolosa. Questo avviene quando la narrazione prende il posto della strategia, il virtuale il posto del reale e le “allucinazioni” prendono il sopravvento sui passi misurati di crescita di un sistema come quello italiano, che è invece a caccia di armonia tra gli elementi piuttosto che alle uscite spasmodiche di comunicati e post compulsivi sui social.

La propaganda vince sulla sostanza?

Negli ultimi mesi si è affermata in modo martellante una rappresentazione digitale e rassicurante di un Paese, il nostro, che starebbe vivendo una “trasformazione profonda” sul piano del capitale umano, della governance digitale e delle tecnologie avanzate, dall’intelligenza artificiale alle infrastrutture. 

Il linguaggio, come molti di voi possono testimoniare, è ambizioso, talvolta trionfale. 

I risultati concreti, però, restano difficili da individuare e i vuoti che emergono sono accompagnati dal crescente sbigottimento che ormai serpeggia tra imprenditori e manager dell’intero settore. 

In un ambito di profondo cambiamento come quello del digitale ciò che conta sono i fatti e non le rappresentazioni virtuali. 

E i fatti dicono che l’Italia non sta compiendo un salto tecnologico. 

Sta riconfezionando debolezze strutturali, con un deficit di visione politica, un arretramento delle imprese italiane, insomma una generale scarsa propensione verso il bene comune.

Il capitale umano?

Il primo nodo è il capitale umano. Nessuna economia avanzata ha mai costruito leadership tecnologica senza investimenti continui, misurabili e di lungo periodo in istruzione, ricerca e competenze. 

Al contrario, l’Italia continua a investire in ricerca e sviluppo ben al di sotto della media OCSE e di quella UE (2,8%, contro una media europea del 2,2% e con l’1,3% appena dell’Italia), non riesce a fermare l’emorragia di capitale umano qualificato che corre verso l’estero né ad offrire percorsi di formazione tecnica capaci di intercettare la domanda industriale reale. Gli ITS restano marginali, la formazione continua frammentata, il rientro dei talenti più dichiarato che realizzato.

Definire tutto questo una “trasformazione profonda” è un esercizio retorico, non un’analisi basata sui fatti.

La governance digitale?

La distanza tra parole e realtà emerge, con ugual chiarezza, nella governance digitale. Si parla in ogni occasione e con post compulsivi di sandbox regolatorie, cloud sicuro, identità digitale, interoperabilità dei dati. Ma l’esperienza quotidiana di imprese e cittadini racconta un sistema ancora lento, chiuso, poco sperimentale. 

Il cloud nazionale non ha ancora generato un ecosistema competitivo, né attratto innovazione: ha prodotto soprattutto un parziale riassetto amministrativo del controllo, pur in un contesto di scarso consenso da parte delle amministrazioni. Addirittura lo scorso anno qualcuno ha anche provato a sottrarre i dati sanitari alle Regioni, senza considerare le prescrizioni del Titolo V della Costituzione, che assegnano esclusivamente alle Regioni le competenze sui dati sanitari. I risultati di quel tentativo sono ovviamente falliti. 

In compenso sentiamo ogni giorno parlare di 6-7-8.000 strutture sanitarie in Italia collegate ad 1 Giga grazie ad i soldi del PNRR. Ma nessuno sa quali siano queste strutture sanitarie (alla faccia degli obblighi di trasparenza), se non per sibillini dati aggregati regione per regione. Non un nome su cui si possa fare un controllo diretto. Viene poi da chiedersi come ci possano essere così tante strutture sanitarie spalmate sul territorio nazionale e con collegamenti a 1 Giga (ampiezza prevista dai contratti PNRR) quando la media di ampiezza di banda italiana è di appena di 171Mbps (+ 91Mbps rispetto allo scorso anno).

L’idea che la Pubblica Amministrazione italiana sia passata “dal documento all’evento” (come leggiamo in uno dei soliti post) non regge alla prova dell’operatività. 

I processi restano centrati sugli adempimenti, non sui risultati.  La formale compliance prevale sulla responsabilità e sulla reingegnerizzazione dei processi e delle procedure.

L’innovazione viene annunciata, raramente misurata, quasi mai valutata ex post.

E l’Intelligenza Artificiale?

Il capitolo sull’intelligenza artificiale è forse l’aspetto più emblematico di questo approccio. 

La legge nazionale sull’AI è, diciamolo, un fallimento strategico. Non perché osi troppo, non vogliamo neanche entrare nel merito di un testo normativo forse pensato male e scritto altrettanto male. 

È un fallimento strategico perché interviene in assenza di una base industriale. Arriva in ritardo rispetto ai cicli tecnologici e si sovrappone in modo confuso al quadro europeo. Non a caso la UE ha deciso di modificare l’AI Act e questo spiega perché gli altri Paesi europei abbiano rallentato la loro marcia normativa nazionale. Altro che primi in Europa, nel mondo e nelle galassie conosciute. 

Quindi abbiamo legiferato sulla IA mentre gli altri hanno deciso di fermarsi in attesa della UE. Possibile che in Italia nessuno si sia preso la briga di sentire la UE prima di dar corso ad un iter di approvazione fulminea della legge italiana sulla IA?

Ma ciò che è ancor più grave è che la legge italiana sulla IA non è accompagnata da alcuna previsione di investimenti strutturali. E non parliamo, come va ormai di moda, di investimenti in data center che sono un business eminentemente immobiliare (tant’è che in Lombardia è esploso a causa dei data center il costo a metro quadro di terreno edificabile).

E’ una legge che non con crea incentivi alla crescita delle imprese, non affronta i nodi decisivi dell’accesso a dati e del loro controllo strategico, non prevede capacità di calcolo realmente nazionali (e non di proprietà di società estere che contrabbandano miliardi di investimenti, in termini di pagamenti estero su estero, per acquistare macchinari che non vendiamo noi e che arricchiscono altri PIL nazionali), infine non dice nulla su come reperire i capitali che possano sostenere uno sviluppo realmente nazionale, pensato per far crescere finalmente le imprese nazionali.

È una legge che disciplina un’assenza. 

Invece di costruire capacità, delimita perimetri. 

E così abbiamo da un lato le grandi economie che regolano dopo aver creato mercati e l’Italia che continua a fare il contrario.

Ora l’ultima ondata riguarda il Quantum Computing, si cui si stanno accumulando slogan e affermazioni prive di riscontro tecnico, scientifico e di mercato, ma con esaltazioni di imprese guarda caso sempre americane. 

Nelle prossime ore si celebrerà, peraltro, un convegno monstre a Roma sul Quantum Computing, una intera giornata, con 27 speaker, 6 rappresentanti di governo, ma nessuna azienda (tranne il rappresentante di una Immobiliare, guarda caso). Emerge un dubbio. Il mercato del Quantum così esageratamente esibito, appare idoneo a coprire le insufficienze accumulate in tutti gli altri settori dossier della trasformazione digitale? Un po’ come dire che siamo sempre oltre, per non guardare negli occhi il presente.

Si ripete quindi il solito modello sin qui descritto. Da segnalare che, per pura coincidenza, qualcuno sta organizzando proprio sugli stessi temi del Quantum Computing un pomposo quanto inutile convegno-esposizione internazionale, già annunciato per metà giugno, con cooptazione di sponsor da ogni dove.

E il PNRR digitale?

Lo stesso schema si ritrova nel PNRR digitale, che rappresentava un’occasione irripetibile per colmare ritardi storici. Il progetto “Italia a 1 Giga” ne è il caso più evidente. 

Dopo aver impegnato miliardi di euro di risorse pubbliche, lo Stato italiano non è oggi in grado di certificare con precisione quante abitazioni siano effettivamente collegate con infrastrutture gigabit funzionanti.

Il problema non è solo il ritardo nell’esecuzione, ma l’assenza di un sistema solido di verifica dei risultati. Non esiste un dato pubblico consolidato, indipendente e verificato sulle connessioni reali. I controlli ex-post sono stati deboli, per usare un eufemismo. Le milestone previste dai contratti sono state trattate come adempimenti formali, non come risultati industriali da misurare sul campo, con l’unica preoccupazione di “mettere a posto le carte”, non rinunciando a qualche furbizia tipicamente italiana.

Il PNRR avrebbe dovuto imporre una discontinuità nella capacità dello Stato di progettare, monitorare e valutare grandi programmi tecnologici. Invece, in molti casi, ha riprodotto i limiti tradizionali: spesa rapida, governance frammentata, responsabilità diffuse, risultati opachi.

Conclusione. Proprio quella che non vorremmo mai vedere…

Questo di cui parliamo non è un fallimento tecnico. È un fallimento di metodo. Ed è un arretramento della politica.

Qui emerge infatti la responsabilità politica di quella componente dell’attuale esecutivo che è competente su molti di questi temi. 

Sotto il Governo Meloni, nonostante la pragmatica concretezza del nostro Presidente del Consiglio, la trasformazione digitale rischia di diventare il vero fanalino di coda dell’azione di governo. 

Le vicende dei prossimi mesi rischiano purtroppo di darci ragione.

Mentre ben altri dossier sono stati presidiati con accurata attenzione politica da parte del Governo Meloni, il digitale è rimasto un tema tanto roboante quanto marginale nella sostanza e fin troppo delegato, senza controlli di merito.

È sempre stato trattato come una questione amministrativa più che strategica. Ma accompagnato con toni trionfalistici e sempre attenti ad aziende estere, a fronte della totale assenza di riscontro con la realtà nazionale, fatta di aziende italiane spesso abbandonate a sé stesse o che hanno dovuto cercare legittimamente spazio in altri mercati nazionali europei e non.

Il risultato è sotto gli occhi di tutti e consiste in una sequenza di annunci, leggi simboliche e programmi costosi che non hanno prodotto alcuna trasformazione sistemica. 

Da canto suo, il PNRR digitale avanza per scadenze formali, non per impatto misurabile. 

Non c’è stata una chiara assunzione di responsabilità politica sulla creazione di campioni tecnologici, sull’attrazione di capitali, sulla rimozione degli ostacoli regolatori alla crescita delle imprese digitali, innanzitutto quelle nazionali.

La sovranità tecnologica viene ovviamente evocata tanto frequentemente quanto inopportunamente (fu un cavallo di battaglia in campagna elettorale e lì siamo rimasti). 

Ma la sovranità tecnologica è un tema che non si costruisce per decreto, né attraverso leggi che regolano mercati inesistenti o investimenti che non vengono verificati nei risultati.

La frase più problematica della narrazione ufficiale resta quella conclusiva: “L’Italia non teme la competizione”.

La realtà suggerisce il contrario. 

L’Italia teme la competizione quando protegge rendite, frammenta i mercati, ostacola il consolidamento, confonde regolazione e strategia, preferisce l’annuncio sterile e con toni da imbonitori, al rischio dell’esecuzione misurabile e da sottoporre a controllo.

Finché la trasformazione digitale resterà il capitolo più debole dell’azione di governo, l’Italia non sarà un attore del cambiamento tecnologico globale. 

Il rischio concreto (e speriamo non irrecuperabile) è che rimanga un osservatore, fermo nella stessa posizione, ma impegnato ossessivamente a raccontarsi che tutto sta andando “secondo i piani”.

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