Indonesia, la scommessa sull’olio di palma per far volare l’aviazione

| 20/11/2025
Indonesia, la scommessa sull’olio di palma per far volare l’aviazione

Il più grande produttore mondiale di olio di palma accelera sui carburanti sostenibili per l’aviazione: Pertamina testa jet fuel “verde” con Pelita Air, Garuda e Citilink e punta alla commercializzazione entro 2-3 anni.

Tra ambizione industriale, reputazione ambientale fragile e pressioni internazionali, l’Indonesia prova a trasformare la palma da olio nell’asset chiave per conquistare il mercato globale dei Sustainable Aviation Fuel. Una scommessa che può ridefinire il ruolo del Paese nei cieli del mondo o amplificare vecchie contraddizioni.

Indonesia vuole decollare con il carburante “di casa”

A Bali, lontano dai numeri astratti dei report, il futuro dell’aviazione si testa letteralmente in pista. L’Indonesia ha iniziato a far volare aerei di linea con miscele di jet fuel convenzionale e carburante derivato dall’olio di palma, etichettato come sustainable aviation fuel (SAF).

L’obiettivo dichiarato dal governo è concreto, quasi aggressivo nei tempi: portare questi carburanti sul mercato entro due o tre anni. Non una ricerca accademica, quindi, ma una vera e propria road map industriale.

Per un Paese che vive da decenni nel paradosso della palma — enorme ricchezza economica, enorme costo ambientale — la sfida è doppiamente simbolica: far sì che la pianta che ha alimentato tanta deforestazione diventi il cuore di una transizione energetica più pulita. O almeno, più pulita di ieri.

Il motore di questo progetto è Pertamina, il colosso energetico statale. Non si limita a raffinare petrolio: sempre di più sta cercando di diventare un gruppo integrato che spazia dalle rinnovabili alla chimica verde.

I test vengono condotti con tre compagnie indonesiane:

  • Pelita Air, controllata da Pertamina stessa, campo di prova naturale;
  • Garuda Indonesia, compagnia di bandiera, vetrina internazionale e banco di prova reputazionale;
  • Citilink, il vettore low-cost che intercetta il traffico interno e regionale.

Sugli aerei vengono caricate miscele di carburante tradizionale e SAF a base di olio di palma trattato: gli ingegneri monitorano consumi, prestazioni, comportamento dei motori, possibili effetti su manutenzione e durata delle componenti.

In parallelo, si analizzano logistica e costi: perché un carburante, per essere davvero “commerciale”, deve funzionare non solo in laboratorio ma nel conto economico delle compagnie.

Perché proprio l’olio di palma? La logica (industriale) di Jakarta

La scelta dell’olio di palma non è casuale, né neutra. L’Indonesia è il primo produttore mondiale, con milioni di ettari coltivati e una filiera che va dai piccoli agricoltori alle grandi corporation agroindustriali.

Dal punto di vista del governo, il ragionamento è quasi lineare:

  • abbiamo una biomassa abbondante e già organizzata industrialmente;
  • il mondo dell’aviazione ha bisogno di SAF;
  • se riusciamo a trasformare la palma in carburante certificato e accettato, possiamo diventare hub globale del jet fuel “verde”.

È, in qualche modo, l’idea di “fare upgrade” a una materia prima che oggi finisce in margarine, cosmetici, carburanti stradali: portarla nel segmento premium dell’energia per l’aviazione, dove i margini sono potenzialmente più interessanti e la domanda è destinata a crescere per vincoli regolatori.

L’elefante nella stanza: la questione ambientale che non scompare

Qui, però, entra l’argomento che nessun comunicato patinato può davvero aggirare: l’olio di palma è tra i simboli globali della deforestazione tropicale.

Per anni, espansioni incontrollate di piantagioni hanno cancellato foreste in Indonesia, con impatti su biodiversità, comunità indigene, emissioni di CO₂. Le immagini degli incendi di torbiere e delle foreste bruciate sono ancora vive nella memoria di molti osservatori internazionali.

Ora il governo e Pertamina sostengono che il SAF da palma sarà diverso, “nuova generazione”:

  • filiere tracciate,
  • uso prioritario di olio raffinato da piantagioni esistenti,
  • focus crescente su scarti e rifiuti oleosi,
  • standard di sostenibilità più severi.

Resta però una tensione di fondo: può un prodotto legato a una coltura controversa presentarsi come simbolo di sostenibilità?

La risposta non dipenderà solo dalle emissioni misurate su carta, ma anche da quanto il mondo sarà disposto a credere a una riconversione reale del settore.

Un mercato affamato di SAF (e ancora povero di offerta)

Il contesto globale gioca, in parte, a favore dell’Indonesia. Le compagnie aeree, spinte da obiettivi di neutralità climatica e da crescenti pressioni regolatorie, hanno bisogno di sostituire una quota crescente di combustibile fossile con SAF.

La cosa interessante è che, oggi, il collo di bottiglia non è la domanda, ma l’offerta:

  • la capacità produttiva globale di SAF è ancora marginale rispetto ai consumi di jet fuel;
  • i prezzi del SAF restano molto più alti rispetto al cherosene tradizionale;
  • i progetti in pipeline non basteranno, da soli, a coprire gli obiettivi fissati per il 2030 e oltre.

In questa scarsità strutturale, un Paese che può mobilitare in tempi relativamente rapidi grandi volumi di materia prima agricola diventa automaticamente interessante. Ed è esattamente la casella che l’Indonesia vorrebbe occupare.

Tra diplomazia e business: l’Indonesia come fornitore di transizione

Dietro al linguaggio tecnico dei test in volo, c’è un’operazione diplomatica abbastanza chiara. Se Jakarta riuscirà a:

  • certificare il proprio SAF,
  • convincere i regolatori che le filiere non alimentano nuova deforestazione,
  • offrire prezzi competitivi,

potrà proporsi come fornitore indispensabile per le compagnie aeree asiatiche, ma anche per quelle europee e mediorientali in cerca di volumi garantiti.

In altre parole, l’Indonesia non venderebbe più solo commodities agricole o combustibili fossili, ma un pezzo di transizione energetica globale. È un cambio di status: da “fornitore di materie prime” a “partner nella decarbonizzazione”.

I nodi aperti: costi, reputazione, concorrenza

La strada, però, è tutt’altro che libera.

Costi e scala industriale

Produrre SAF è complesso e costoso. Serve una chimica sofisticata, impianti dedicati, logistica ad hoc. Per essere competitivo, il carburante indonesiano dovrà sfruttare economie di scala e magari forme di sostegno pubblico mirato.

Reputazione ambientale

L’olio di palma sconta un handicap d’immagine enorme. Anche con sistemi di certificazione avanzati, basterà una singola inchiesta o un singolo scandalo per riaccendere la diffidenza di mercati, ong, consumatori.

Concorrenza tecnologica

Nel frattempo, altre filiere stanno avanzando: SAF da rifiuti solidi urbani, da oli esausti, da residui agricoli, fino ai futuri e-fuel sintetici prodotti con elettricità rinnovabile. Se queste tecnologie scenderanno di prezzo più in fretta, l’Indonesia rischia di ritrovarsi con una soluzione “transitoria” che diventa obsoleta troppo presto.

Una scelta che pesa sul lungo periodo

C’è una domanda che aleggia sopra tutto il progetto, e riguarda la traiettoria stessa del Paese: l’Indonesia vuole legare il proprio futuro energetico a una coltura che ha già mostrato tutti i suoi limiti, o userà il SAF da palma come ponte verso un portafoglio più diversificato di tecnologie?

La differenza non è marginale:

  • nel primo caso, il rischio è quello di consolidare un modello agro-energetico ad alta intensità di terra, vulnerabile a critiche, boicottaggi e cambiamenti normativi;
  • nel secondo, la palma potrebbe diventare una sorta di “trampolino”, un modo per generare risorse economiche e politiche da reinvestire in soluzioni a più basso impatto.

Molto dipenderà anche da come verrà distribuito il valore lungo la filiera: se i benefici si fermeranno ai grandi conglomerati, o se coinvolgeranno davvero piccoli produttori e comunità rurali.

Un Paese, una pianta e il futuro dell’aviazione

La scommessa indonesiana sul jet fuel da olio di palma ha qualcosa di profondamente emblematico. È come se il Paese stesse provando a riscrivere la storia di una pianta che, finora, è stata sinonimo di deforestazione e monocoltura, trasformandola in uno strumento — imperfetto, certo, ma concreto — per ridurre le emissioni dell’industria che più di tutte incarna l’idea di globalizzazione: l’aviazione.

Se il progetto funzionerà, l’Indonesia potrà dire di aver usato la propria realtà — non quella ideale dei manuali — per rispondere a una sfida planetaria. Se invece fallirà, rischierà di essere ricordata come il Paese che ha provato a chiamare “sostenibile” ciò che il mondo non era pronto ad accettare come tale.

In ogni caso, una cosa è già chiara:
il futuro dei cieli non si deciderà solo negli hangar e negli uffici delle compagnie aeree, ma nei campi, nelle raffinerie, nei laboratori dove si sperimenta come trasformare biomasse e molecole in qualcosa che possa far volare il mondo con un peso minore sul clima.

L’Indonesia, nel bene e nel male, ha scelto di stare lì, nel mezzo di questa trasformazione. Con una pianta antica, un’industria moderna e una domanda che non farà sconti: quanto siamo davvero disposti a cambiare per continuare a volare?

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