La Cina accelera sull’eolico offshore, spinta da turbine a basso costo e da una strategia industriale che intreccia energia, geopolitica e potere economico.
Mentre l’Occidente rallenta, Pechino costruisce. E nel mare della Cina prende forma una nuova egemonia: quella dell’energia pulita.
L’ascesa del vento cinese
In un mondo travolto dalla crisi climatica e dall’instabilità dei mercati energetici, la Cina non si limita ad adattarsi: sta ridisegnando le regole del gioco.
Mentre Europa e Stati Uniti faticano a mantenere il ritmo della transizione verde, schiacciati da costi crescenti, inflazione e instabilità politica, Pechino avanza con passo costante.
L’energia eolica offshore è la nuova frontiera del potere industriale cinese e la Repubblica Popolare l’ha compreso prima di tutti.
Nel 2024, la Cina ha installato oltre 8 gigawatt di nuova capacità offshore, portando il totale nazionale a più di 37 GW, pari a oltre un terzo del totale mondiale, secondo i dati dell’International Energy Agency (IEA).
Un ritmo impressionante, alimentato da turbine domestiche, sussidi statali e una filiera completamente nazionale.
Dietro la corsa eolica cinese non c’è solo la voglia di innovare: c’è una precisa strategia geopolitica.
Per Pechino, l’energia non è solo un settore economico — è uno strumento di influenza, un’arma diplomatica e un simbolo di supremazia tecnologica.
La forza di una filiera interamente nazionale
L’elemento che distingue la Cina da qualsiasi altro attore globale è la verticalità del suo modello industriale.
Dalla produzione di acciaio alle pale eoliche in fibra di carbonio, tutto viene realizzato in patria, da colossi come Goldwind, MingYang, Envision e CSSC Haizhuang, sostenuti da un ecosistema pubblico-privato perfettamente integrato.
Il prezzo medio di una turbina offshore cinese è oggi inferiore del 25-30% rispetto ai modelli europei, grazie a una catena del valore accorciata, finanziamenti pubblici agevolati e costi di manodopera contenuti.
Ma la competitività non è solo economica: è logistica.
Le grandi aree industriali di Shanghai, Guangzhou e Tianjin ospitano cantieri navali, fabbriche di componentistica e porti energetici nello stesso distretto, riducendo drasticamente tempi e costi di produzione.
Questo modello, unito a un ritmo di costruzione impensabile in Europa, ha permesso alla Cina di superare l’Occidente nella capacità di realizzare parchi eolici su scala continentale.
L’energia come leva di indipendenza
Dietro la spinta all’eolico offshore si cela una motivazione ancora più profonda: l’autonomia energetica.
La crisi del gas esplosa dopo l’invasione russa dell’Ucraina ha mostrato al mondo quanto la dipendenza dalle fonti fossili importate possa diventare una vulnerabilità strategica.
Pechino l’ha capito prima di molti altri.
La Cina importa oltre il 70% del suo petrolio e circa il 40% del gas naturale, gran parte dei quali transitano attraverso lo Stretto di Malacca — un passaggio marittimo tanto cruciale quanto esposto a rischi geopolitici.
L’eolico offshore offre una risposta semplice, ma potente: energia domestica, pulita e localizzata nelle proprie acque territoriali.
Le province costiere di Jiangsu, Guangdong e Fujian, dove il vento soffia costante e le acque sono poco profonde, sono diventate laboratori di sperimentazione tecnologica.
Qui nascono turbine da 18 megawatt, alte quanto un grattacielo di 60 piani, in grado di alimentare oltre 40.000 abitazioni ciascuna.
Per Pechino, il mare è la nuova frontiera del futuro energetico.
Come ha dichiarato un portavoce del Ministero dell’Energia cinese, “Il mare rappresenta per noi quello che il deserto è stato per il solare: un orizzonte infinito di opportunità e indipendenza”,
Quando l’eolico incontra la geopolitica
Ma non si tratta solo di energia.
Molti dei nuovi impianti eolici offshore sorgono in aree contese del Mar Cinese Meridionale, teatro di tensioni costanti tra Pechino, Vietnam, Filippine e Malesia.
Costruire infrastrutture “civili” in queste zone equivale a piantare bandiere tecnologiche: turbine che producono energia, ma anche presenza territoriale.
La stessa dinamica si replica all’estero, dove la Cina utilizza l’export di tecnologie eoliche come strumento di diplomazia energetica.
Nel 2023, i produttori cinesi hanno esportato componenti o impianti completi in oltre 20 Paesi, finanziando le opere attraverso banche statali come la China Development Bank e la Exim Bank.
Dall’Africa all’America Latina, i nuovi parchi eolici “chiavi in mano” portano con sé finanziamenti, tecnici e contratti di manutenzione a lungo termine, creando una nuova forma di dipendenza verde.
L’energia pulita, in altre parole, è diventata la nuova via della seta.
L’Occidente in difficoltà
Nel frattempo, l’Occidente sembra essersi impantanato in una fase di rallentamento.
In Europa, l’aumento dei costi delle materie prime e la pressione inflazionistica hanno colpito duramente i colossi dell’eolico.
Siemens Gamesa, leader del settore, ha registrato perdite record nel 2024, mentre Vestas ha dovuto ridurre la produzione per mancanza di margini.
Il Regno Unito, un tempo pioniero nell’eolico marino, ha annullato alcune gare pubbliche per nuovi parchi, giudicando insostenibili le offerte economiche.
Negli Stati Uniti, progetti multimiliardari come quelli di Ørsted e BP sulla costa atlantica sono stati rinviati o ridimensionati.
Secondo la WindEurope Association, il rischio per l’Europa è concreto: se non si ridurrà la distanza in termini di competitività industriale, entro il 2030 il continente potrebbe perdere fino a 150.000 posti di lavoro nel settore.
L’ambizione del 2060: la neutralità come nuova potenza
La Cina non nasconde la propria ambizione: diventare leader globale nella transizione energetica entro la metà del secolo.
Nel piano Carbon Neutral 2060, Pechino prevede che oltre il 70% della capacità installata nazionale derivi da fonti rinnovabili.
Solo per l’eolico offshore, l’obiettivo è di raggiungere i 120 gigawatt entro il 2030, una cifra che supererebbe la somma di tutti gli altri Paesi messi insieme.
A sostegno del piano, il governo ha introdotto meccanismi di credito verde, incentivi fiscali e fondi dedicati alla decarbonizzazione industriale.
Ma soprattutto, ha trasformato la transizione energetica in un progetto di identità nazionale: un simbolo di orgoglio e modernità.
Come spiegano molti economisti cinesi, “ogni turbina che gira al largo delle nostre coste è un segno che il futuro può essere cinese e sostenibile al tempo stesso.”
Il vento del potere
La storia dell’energia è sempre stata una storia di egemonie.
Dall’Inghilterra del carbone agli Stati Uniti del petrolio, ogni era ha avuto il suo dominatore.
Ora, nell’epoca dell’energia pulita, il vento del Dragone soffia più forte di tutti.
Non si tratta solo di kilowatt o di emissioni: si tratta di chi detterà le regole della nuova economia mondiale.
Mentre l’Occidente discute di incentivi, Pechino costruisce fabbriche, turbine e porti.
E mentre molti vedono nella decarbonizzazione un obbligo, la Cina la interpreta come un’occasione per riscrivere gli equilibri del pianeta.
La transizione energetica è già iniziata. La vera domanda è: chi controllerà il vento?