Il Giappone dopo Abe: l’era Takaichi e il ritorno del potere conservatore

| 06/10/2025
Il Giappone dopo Abe: l’era Takaichi e il ritorno del potere conservatore

Sanae Takaichi eredita un’economia fragile, un ordine geopolitico in transizione e l’eredità dell’Abenomics. Tra linea dura su Cina e sicurezza, diplomazia tattica con Washington, tecnologia strategica e riforme costituzionali, Tokyo ridisegna il suo posto nel mondo.

L’ascesa di Sanae Takaichi alla presidenza del Partito Liberal Democratico apre la strada alla prima premier donna del Giappone. L’evento è storico, ma la sua agenda parla la lingua della continuità: pragmatismo economico, ambizione industriale, assertività geopolitica. Sullo sfondo, una politica interna complessa — LDP indebolito e Parlamento frammentato — e mercati euforici: il Nikkei vola oltre il +4% nell’immediato, ma gli investitori chiedono prove di esecuzione. In gioco non c’è solo la congiuntura; c’è la traiettoria di una potenza matura che vuole tornare a dettare il ritmo in Asia.

Una svolta simbolica, una continuità sostanziale

La vittoria alla guida dell’LDP colloca Sanae Takaichi a un passo da Kantei, dopo le dimissioni di Shigeru Ishiba e due cicli elettorali sfavorevoli al partito di governo (2024 e 2025). Sotto il profilo politico, è la leader che meglio incarna l’eredità di Shinzo Abe: conservatrice, disciplinata, attenta ai dossier di sicurezza. La novità è l’immagine di un potere che si apre — finalmente — a una leadership femminile; la continuità è un’impostazione dottrinaria che privilegia stabilità e proiezione strategica. Il Paese entra in una fase nuova non perché abbandoni il tracciato, ma perché lo aggiorna a un contesto più duro: filiere frammentate, concorrenza per il capitale, pressione demografica.

Aritmetica parlamentare e legittimazione politica

La calendarizzazione del voto di conferma al Diet pone un primo test: con l’LDP in posizione di minoranza, servirà un’intesa con almeno una sigla d’opposizione per costruire una maggioranza di lavoro. Il rischio di un blocco formale appare contenuto, ma il segnale politico conterà: Takaichi dovrà mostrare di saper comporre coalizioni, non solo di guidare un partito. Il premio, in caso di accordo, è l’agibilità legislativa su bilancio, industria e sicurezza; il costo, una negoziazione più faticosa su temi identitari come immigrazione e revisione costituzionale.

Abenomics 2.0: tra memoria e realtà

Takaichi si colloca nella tradizione Abenomics — allentamento monetario, stimolo fiscale, riforme — con un’enfasi rinnovata sul sostegno alla domanda interna e alle esportazioni. La Bank of Japan, dopo la fine dei tassi negativi nel 2024 e un corridoio di policy intorno allo 0,5%, segnala gradualità e “nessun preconcetto” sui prossimi passi. La nuova premier, al contrario, ha criticato troppo zelo restrittivo, evocando la necessità di liquidità e di budget pro-crescita. La posta in gioco è nota: uno yen più debole sostiene l’export, ma alimenta inflazione importata e costi energetici; più spesa accelera gli investimenti, ma gravita su un debito pubblico già eccezionale. Il compromesso “alla giapponese” — stimoli mirati, riforme micro e credibilità fiscale — sarà il vero esame di maturità.

Costo della vita, salari e coesione sociale

La crisi del costo della vita pesa sui consensi: alimentari ed energia hanno eroso i redditi reali, mentre la dinamica salariale fatica a inseguire. La sfida è correggere le asimmetrie senza generare nuove rigidità: sostegni temporanei ai ceti vulnerabili, tagli selettivi al cuneo, incentivi alla contrattazione che colleghino aumenti a produttività e formazione. Sullo sfondo, la questione più sensibile: una immigrazione in crescita per colmare la carenza di manodopera, in tensione con un elettorato conservatore. La tenuta sociale richiede un linguaggio politico nuovo: sicurezza identitaria e inclusione economica, non uno contro l’altra.

Debito, demografia, produttività: l’equazione impossibile

Il debito sopra soglie di eccezionalità e una popolazione che invecchia non sono un incidente, ma la cornice del policymaking. Per uscirne, la leva non è contabile — non più — ma tecnologica e organizzativa: automazione, robotica, sanità digitale, processi “lean” nelle PMI. L’obiettivo è aumentare la produttività totale dei fattori e “compensare” demografia e debito con crescita di qualità. In questo senso, la politica industriale smette di essere una bandiera e diventa ingegneria istituzionale: semplificazione normativa, riduzione dei tempi autorizzativi, incentivi con clausole di uscita, procurement pubblico come catalizzatore dell’innovazione.

Triangolo strategico: Stati Uniti, Cina, Taiwan

Con Washington, Takaichi punta a una relazione di alleanza, ma non subalternità. L’ipotesi di rivedere l’intesa commerciale bilaterale riflette l’esigenza di simmetria: accesso ai mercati, standard tecnologici e sicurezza delle filiere. Il ritorno di un’amministrazione americana assertiva impone a Tokyo una diplomazia tattica ma ferma.
Con Pechino, la linea è quella della deterrenza e della gestione del rischio: difesa in aumento, controllo sugli investimenti in asset strategici, più coordinamento con partner regionali. La prossimità con Taiwan — culturale e tecnologica — resta un pilastro sensibile: collaborazione senza provocazione inutile, ma senza ambiguità sui valori democratici. Questo equilibrio determina gli spazi di manovra industriale (semiconduttori, materiali critici, data center) e militare (capacità strike, cyber, spazio).

L’Articolo 9 tra diritto e strategia

La revisione della Costituzione pacifista — in particolare dell’Articolo 9, che sancisce la rinuncia del Giappone alla guerra come strumento di sovranità — rappresenta il cuore simbolico e politico dell’agenda Takaichi. È un dossier identitario, dove diritto, memoria storica e strategia nazionale si intrecciano. La premier non parla di revoca della pace, ma di aggiornamento della realtà costituzionale a un contesto in cui Tokyo dispone già di una delle forze armate più tecnologicamente avanzate del mondo, pur senza chiamarle formalmente tali.

Sul piano giuridico, la riforma implica una revisione costituzionale complessa: due terzi del Parlamento e un referendum popolare, in un Paese dove il testo del 1947 non è mai stato modificato. Ma la difficoltà non è solo aritmetica. L’Articolo 9 è parte integrante dell’identità postbellica giapponese, simbolo di un ordine fondato sulla rinuncia alla forza e sulla fiducia nell’alleanza americana. Mettervi mano significa, inevitabilmente, riaprire il patto tra società, istituzioni e potere militare che ha garantito al Giappone sette decenni di stabilità.

Rendere coerenti mezzi e fini

Dal punto di vista strategico, invece, la revisione mira a rendere coerenti mezzi e fini. Il Giappone è già un pilastro del dispositivo di sicurezza dell’Indo-Pacifico: investe oltre il 2% del PIL in difesa, sviluppa capacità di attacco preventivo, collabora con Washington su cyber e spazio, e coordina le proprie esercitazioni con Australia e Corea del Sud. Tuttavia, continua a operare sotto una costruzione giuridica ambigua, dove l’autodifesa collettiva è ammessa solo in casi estremi.
Takaichi propone di trasformare questa ambiguità in dottrina: una Costituzione che riconosca apertamente il ruolo di deterrenza e interoperabilità con gli alleati, sancendo che la pace non è mera neutralità, ma capacità di protezione.

Il nodo più delicato resta politico e culturale. La revisione, se spinta in chiave ideologica, rischia di riattivare antiche diffidenze regionali — in particolare da parte di Cina e Corea del Sud — e di polarizzare il consenso interno. Ma se gestita come un’evoluzione pragmatica, potrebbe rafforzare la legittimità democratica di una sicurezza ormai indispensabile.

In sintesi, il successo di Takaichi dipenderà da una linea sottile: riformare senza revisionare, aggiornare senza riscrivere la memoria. La pace costituzionale del Giappone può evolversi, ma non deve smettere di essere il suo marchio politico e morale più credibile.

Politica industriale e sovranità tecnologica

La rete di incentivi da centinaia di miliardi di dollari a semiconduttori e supply chain critiche non basta senza governance. La politica industriale efficace è condizionata a delivery: KPI pubblici, milestone verificabili, trasparenza su costi e benefici, concorrenza nei bandi, valutazioni indipendenti d’impatto. Tre architravi orientano i flussi:

  1. Chip e sistemi avanzati: progettazione, materiali, packaging
  2. Energia e transizione: reti, stoccaggi, idrogeno, efficienza
  3. Dual use e cyber: tecnologie con impatto civile e militare, standard aperti, resilienza digitale.

Il successo dipenderà dalla capacità di collegare ricerca, impresa e procurement pubblico, evitando che la “sovranità” diventi sinonimo di autarchia costosa.

Diritto dell’innovazione: regole che creano mercato

Il “nuovo Giappone” non si misura solo con i miliardi di incentivi, ma con la qualità delle regole: proprietà intellettuale, interoperabilità dei dati, standard nei servizi digitali, sandbox regolatorie per l’AI. Il compito è aprire mercati, non proteggerli: concorrenza “contestabile”, procurement trasparente, riduzione dei costi di compliance per le PMI e strumenti rapidi di trasferimento tecnologico. È qui che il Paese può fare scuola: istituzioni solide e cultura ingegneristica sono un vantaggio se diventano piattaforma per innovatori, non filtro burocratico.

Le tre incognite del primo anno

Il primo anno di governo di Sanae Takaichi sarà un banco di prova complesso, segnato da tre variabili che ne determineranno la traiettoria politica ed economica.
La prima riguarda la coalizione e il bilancio: per governare, la premier dovrà tessere alleanze e accettare compromessi che inevitabilmente influenzeranno la sua agenda di spesa e riforme. Il suo obiettivo sarà mantenere la disciplina fiscale senza sacrificare gli investimenti pubblici in infrastrutture, innovazione e sicurezza. Ma ogni concessione ai partner di governo potrà ridurre il margine di manovra su temi sensibili come la politica industriale o la revisione costituzionale.

La seconda incognita è lo yen e l’inflazione. Le politiche pro-export, cuore dell’approccio Abenomics, spingono sulla competitività del cambio, ma rischiano di comprimere i redditi reali delle famiglie, già colpite da un aumento dei prezzi energetici e alimentari. Il dilemma è sottile: come sostenere la crescita senza generare una spirale inflazionistica che mini la fiducia interna e metta pressione sulla Bank of Japan?

Infine, il terzo asse — forse il più delicato — è la sicurezza e la diplomazia. Takaichi dovrà alzare la soglia di deterrenza militare, soprattutto nel quadrante indo-pacifico, senza compromettere i canali economici con la Cina e mantenendo una relazione stabile con gli Stati Uniti, che restano il principale garante della sicurezza regionale. La sua abilità nel bilanciare questi interessi opposti definirà la fisionomia del nuovo Giappone: potenza assertiva ma credibile, partner affidabile e non solo subordinato.

In definitiva, sarà la gestione di queste tre variabili — politica, economica e geopolitica — a stabilire se l’euforia che ha accompagnato la sua elezione potrà trasformarsi in un ciclo di investimenti e fiducia duratura, o se si rivelerà l’ennesimo pendolo tra speranza e volatilità.

Potenza tranquilla o potenza incompiuta?

Il mandato di Sanae Takaichi può trasformare il Giappone nella potenza tranquilla dell’Asia democratica: capace di dettare standard, costruire filiere sicure, attrarre capitale e talento. Oppure può inchiodarlo a una modernità incompiuta, dove sovranità significa spesa e non risultati, e dove la sicurezza diventa un linguaggio senza strategia. La differenza la faranno l’esecuzione, la qualità delle alleanze e la capacità di tenere insieme tre parole che raramente convivono: stabilità, concorrenza, innovazione. Il primo passo è stato dirompente sul piano simbolico; i prossimi diranno se il Giappone saprà, finalmente, tornare a guidare — non solo a resistere — l’ordine economico e geopolitico dell’Indo-Pacifico.

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