La catena globale del caffè lancia una delle ristrutturazioni più radicali della sua storia recente. Il CEO Brian Niccol promette un ritorno alle origini, ma tra calo delle vendite, concorrenza in crescita e tensioni sindacali, il futuro del brand è tutt’altro che scontato.
Starbucks ha costruito la sua leggenda vendendo molto più di caffè: un’esperienza, un rifugio, un “terzo luogo” tra casa e lavoro. Oggi, però, quella leggenda vacilla. Dopo sei trimestri consecutivi di vendite in calo, l’azienda annuncia un piano di ristrutturazione da 1 miliardo di dollari che prevede la chiusura di oltre 100 store e il taglio di 900 dipendenti corporate. Una scossa che non riguarda solo i conti, ma l’identità stessa del marchio: Starbucks può reinventarsi senza tradire la sua anima?
Una crisi che tocca l’anima del brand
Per anni, Starbucks è stata molto più che un coffee shop: un luogo culturale che ha trasformato il modo in cui il mondo consuma caffè. Ma il fascino del marchio si è affievolito. Le nuove generazioni cercano autenticità, prezzi accessibili e alternative locali, mentre il consumatore americano medio è diventato più attento alle spese.
Il risultato? Sei trimestri consecutivi di calo nelle vendite comparabili in Nord America, il mercato più importante. È in questo contesto che Starbucks ha scelto la strada della ristrutturazione: un piano da 1 miliardo che sembra tanto un atto di coraggio quanto un gesto di sopravvivenza.
Un piano che costa caro
La strategia non è un maquillage contabile, ma una scommessa radicale:
- 150 milioni di dollari saranno destinati a liquidazioni e pacchetti di separazione per i dipendenti.
- 850 milioni di dollari copriranno i costi legati alla chiusura di oltre 100 store.
Il 90% delle spese sarà concentrato in Nord America, un dato che racconta il peso della crisi proprio nel mercato che ha reso Starbucks un colosso globale. Spendere per ridurre: un paradosso che riflette la logica di un’azienda che tenta di proteggere il proprio futuro sacrificando parte del presente.
Niccol e la promessa di un ritorno alle origini
Alla guida di questa trasformazione c’è Brian Niccol, ex CEO di Chipotle, noto per aver salvato la catena da una crisi reputazionale che sembrava irreversibile.
La sua filosofia è semplice: tornare al cuore dell’esperienza Starbucks. Spazi caldi, accoglienti, in grado di far fermare i clienti più a lungo; un caffè che non è solo prodotto, ma rituale.
“Questi passi sono necessari per costruire uno Starbucks migliore, più forte e più resiliente,” ha scritto Niccol ai dipendenti. È una visione che punta a restituire al marchio la sua anima originaria, ma che dovrà fare i conti con un contesto radicalmente diverso rispetto agli anni d’oro.
La nuova concorrenza del caffè
Il caffè di Starbucks non è più unico come un tempo. I competitor storici come Dunkin’ hanno rafforzato la loro presa sul mercato, mentre le caffetterie indipendenti offrono un’alternativa percepita come più autentica e spesso più economica.
A questo si aggiunge un consumatore più fragile: l’inflazione e il costo della vita spingono milioni di americani a rivedere le proprie abitudini. Quel cappuccino da 6 dollari, un tempo considerato un lusso accessibile, oggi viene percepito da molti come un eccesso da tagliare.
La sfida per Starbucks è duplice: convincere che il suo prezzo premium è giustificato dall’esperienza e al tempo stesso dimostrare di essere ancora rilevante in un mercato che cambia.
Il nodo dei lavoratori: sindacati in agguato
Dietro le cifre del piano ci sono persone. Starbucks ha promesso che i baristi degli store destinati alla chiusura saranno ricollocati dove possibile o riceveranno pacchetti di liquidazione. Ma il sindacato Starbucks Workers United, che rappresenta oltre 12.000 lavoratori in più di 650 store, ha già annunciato che chiederà negoziati sugli effetti delle chiusure.
La tensione è palpabile. Starbucks ha sempre costruito la propria immagine su valori di comunità e inclusione, ma negli ultimi anni il suo rapporto con i lavoratori si è incrinato. Una gestione maldestra di questa fase potrebbe danneggiare non solo l’operatività, ma anche la reputazione globale del marchio.
Investire nel servizio: la scommessa del “Green Apron”
Il piano di ristrutturazione non si limita ai tagli. In parallelo, Starbucks investirà 500 milioni di dollari nel programma “Green Apron Service”, che prevede più ore di lavoro per i baristi e una migliore organizzazione durante i momenti di punta.
I primi risultati sembrano incoraggianti: più personale nei momenti giusti significa meno attese, clienti più soddisfatti e una maggiore propensione a tornare. Ma basterà a giustificare i prezzi premium e a riportare Starbucks alla centralità di un tempo?
Wall Street osserva con cautela
Gli investitori hanno reagito con freddezza: il titolo Starbucks è rimasto stabile dopo l’annuncio, ma ha perso oltre il 7% da inizio anno. Il piano viene letto come necessario, ma anche come un atto difensivo.
Per Wall Street, la vera prova sarà nei numeri dei prossimi trimestri: se le vendite comparabili non torneranno a crescere, i miliardi spesi rischiano di apparire come un costoso tentativo di comprare tempo.
Starbucks tra mito e realtà
Starbucks è più di un marchio: è un pezzo di cultura contemporanea. La sua sfida non è soltanto rilanciare un bilancio, ma reinventare un modello che ha fatto scuola.
Il piano da 1 miliardo rappresenta un bivio. Da un lato, la possibilità di riportare il brand al centro dell’esperienza del caffè, ricreando quel senso di comunità che lo ha reso unico. Dall’altro, il rischio che si tratti solo di una manovra difensiva, incapace di affrontare le trasformazioni profonde del mercato e dei consumatori.
La vera domanda è se Starbucks saprà ancora essere il simbolo di un’epoca o se il suo futuro sarà quello di un gigante che, pur reinventandosi, non riesce più a dettare le regole del gioco. In un mondo in cui il caffè è sempre più diffuso, personalizzato e locale, la sfida è tornare a essere universale senza perdere autenticità.
Per Starbucks, il caffè più amaro potrebbe essere proprio questo: accettare che il tempo del mito non basta più, e che solo un’autentica trasformazione potrà restituirgli il posto che aveva guadagnato nel cuore dei consumatori.