Google vs Idealo: 572 milioni di euro che cambiano il gioco in Europa

RedazioneRedazione
| 14/11/2025
Google vs Idealo: 572 milioni di euro che cambiano il gioco in Europa

Una sentenza tedesca senza precedenti rimette in discussione l’architettura competitiva del digitale europeo.

Il tribunale di Berlino condanna Google per abuso di mercato. Idealo e Producto ottengono risarcimenti record, mentre l’Europa inizia a ridefinire i confini del potere delle grandi piattaforme.

Un verdetto che pesa (anche dove non si vede subito)

Le cifre fanno rumore, 465 milioni a Idealo, altri 107 a Producto, ma il vero terremoto è più silenzioso, più profondo. Non riguarda solo il saldo finale, bensì l’ammissione, messa agli atti, che Google abbia abusato della sua posizione dominante nel mercato delle comparazioni prezzi.
Una frase che, per anni, è sembrata quasi impronunciabile, almeno nei tribunali.

Ora invece è lì, nero su bianco.

E mentre la sentenza fa il giro delle redazioni, un dubbio si insinua: non è che questa decisione tedesca apra una breccia? Un varco da cui altre aziende europee, piccole, medie, perfino invisibili, potrebbero tentare di farsi strada?

La questione non è tecnica, o non solo. È culturale.

Idealo, Axel Springer e quella lunga corsa controvento

Idealo non è la startup romantica che sfida il gigante tecnologico con il cuore pieno di speranza. È una piattaforma solida, con alle spalle Axel Springer: uno dei gruppi editoriali più influenti d’Europa, che da anni combatte e spesso apertamente il peso specifico di Google sull’ecosistema informativo.

Tra il 2008 e il 2023, secondo il tribunale, Google avrebbe spinto sistematicamente il proprio Google Shopping sopra i concorrenti. Un vantaggio “strutturale”, difficile da ribaltare anche con investimenti ingenti. Una lenta erosione di traffico, quasi impercettibile mese dopo mese, ma devastante sui bilanci.

Il co-fondatore Albrecht von Sonntag, con una frase che sembra scolpita a scalpello, ha dichiarato:

“Continueremo a combattere. L’abuso di mercato deve avere conseguenze — e non può diventare un modello di business redditizio”.

Una frase che suona come un avvertimento, più che un commento.

Google ribatte: il mercato è cambiato (e non poco)

Dall’altra parte, Google non mostra crepe. Anzi.
Sostiene che tutto ciò appartenga a un contesto ormai superato. Dopo il 2017, dicono, il sistema è stato riprogettato per garantire pari opportunità a tutti i comparatori. Non solo: il numero di piattaforme che competono nella Shopping Unit sarebbe cresciuto da 7 a oltre 1.500.

È un dato imponente.
Ma, come capita spesso nel digitale, non dice tutto. Essere presenti non significa necessariamente competere ad armi pari. E le aste pubblicitarie non sempre azzerano gli squilibri: talvolta li amplificano.

Se per recuperare visibilità un’azienda deve pagare proprio chi controlla l’accesso al traffico, il paradosso è evidente: l’arbitro del gioco incassa soldi da tutti i giocatori.

E allora il problema non è la presenza di molti concorrenti, bensì la struttura del campo di gioco.

Il doppio ruolo di Google: arbitro e giocatore

Questo è il vero nodo e da qui non si scappa facilmente.
Google è il motore di ricerca dominante in Europa e, contemporaneamente, offre servizi che competono dentro lo stesso spazio che gestisce. È come se la stessa azienda possedesse l’autostrada e vendesse automobili che, guarda caso, trovano sempre la corsia più libera.

Nella comparazione prezzi, nella ricerca voli, negli hotel, nelle mappe: il conflitto di interessi è diventato un tema strutturale dell’economia digitale. Lo sanno i regolatori, lo sanno le aziende, lo sanno ormai anche i consumatori più attenti.

Il caso Idealo, in fondo, non è altro che il punto di emersione di una domanda che nessuno può più evitare: si può davvero avere concorrenza quando l’architettura stessa del mercato è controllata da uno dei giocatori?

L’Europa del DMA osserva e prende appunti

E qui entra in scena l’Unione Europea.
Con il Digital Markets Act, Bruxelles ha deciso che i gatekeeper digitali non possono essere lasciati a regolarsi da soli. Non più. Il caso Idealo arriva in un momento quasi simbolico: la transizione dalla logica “puniamo i comportamenti scorretti” alla logica “impediamoli prima che accadano”.

Per questo la sentenza tedesca pesa più del suo valore economico.
È un precedente. Un faro acceso. Un segnale politico.

Se i tribunali iniziano a riconoscere risarcimenti multimilionari, diventa difficile per le piattaforme ignorare la pressione normativa europea. E difficile, per le aziende europee, continuare a nascondersi dietro la rassegnazione.

Axel Springer e la strategia delle crepe nel muro

Non è un mistero che Axel Springer abbia una lunga storia di frizioni con Google. Ma non bisogna leggere questa sentenza come un semplice capitolo di una guerra privata. L’obiettivo non è punire Google: è ridefinire la cornice in cui Google opera.

È una strategia fatta di crepe. Poche all’inizio, poi sempre più evidenti.
Non si scalfisce un gigante con un singolo colpo, ma con una pressione lenta, ragionata, ostinata.

Idealo non ha ottenuto i 3,3 miliardi richiesti.
Ma ha ottenuto qualcosa di forse più importante: una sentenza che riconosce un abuso.
Ed è proprio nei tribunali e nel linguaggio del diritto che si riscrivono gli equilibri del digitale europeo.

Il rischio dell’apparenza: quando la “concorrenza” è solo di facciata

Uno dei punti più controversi è la differenza tra pari accesso teorico e pari opportunità reale.
Un mercato può sembrare aperto, persino meritocratico, ma nascondere asimmetrie profonde:

  • aste che favoriscono gli attori più capitalizzati
  • interfacce che orientano inconsciamente il click
  • spazi premium che sono formalmente acquistabili da tutti, ma solo pochi possono permettersi.

In altre parole: il fatto che il mercato sembri affollato non garantisce che sia veramente competitivo.

La Germania sembra averlo capito. Non tutti in Europa, finora, lo avevano detto così chiaramente.

Un’Europa che scopre la propria voce

Questa sentenza non risolve tutto. Non chiude decenni di squilibri né ribalta lo stato di fatto.
Ma rappresenta qualcosa di più raro: un cambio di tono.
Quel momento in cui un continente, di solito prudente, perfino lento nell’agire, decide che non vuole più essere spettatore passivo di un mercato definito altrove.

Si può discutere all’infinito se Google abbia fatto abbastanza per garantire concorrenza. Si può contestare la cifra, la metodologia, persino l’opportunità politica del verdetto. Ma una cosa è certa: l’Europa ha smesso di balbettare.

Il digitale, da oggi, non è più solo questione di algoritmi e innovazione.
È questione di poteri, di regole, di trasparenza.
E soprattutto: di chi ha il diritto e la responsabilità di definire l’ordine economico della rete.

In fondo, la domanda che aleggia sulla vicenda Idealo è semplice ma radicale: Google vuole essere il motore di ricerca del mondo o anche il suo regolatore?
La risposta, per la prima volta dopo molto tempo, non dipenderà solo da Google.

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