Ex Ilva, il gigante d’acciaio senza futuro: fallisce la gara, resta il nodo della nazionalizzazione

| 28/09/2025
Ex Ilva, il gigante d’acciaio senza futuro: fallisce la gara, resta il nodo della nazionalizzazione

L’ex Ilva, un tempo simbolo della potenza industriale europea, si ritrova con appena due pretendenti per l’intero complesso: entrambi fondi finanziari, non campioni industriali. I grandi gruppi si sfilano, i sindacati parlano di fallimento e il governo resta davanti a un bivio: privatizzare a ogni costo o riportare il gigante nelle mani dello Stato.

La chiusura della gara per l’ex Ilva di Taranto, avvenuta alla mezzanotte di venerdì, ha consegnato un quadro che nessuno a Roma avrebbe voluto leggere: dieci manifestazioni d’interesse, ma soltanto due con la volontà di rilevare l’intero complesso produttivo. Per un sito che per decenni è stato il cuore della siderurgia europea, è una fotografia desolante.

La delusione non riguarda tanto il numero delle offerte quanto la loro natura. Dei due candidati rimasti, nessuno è un grande player industriale. A farsi avanti sono stati Bedrock Industries, società privata statunitense, e un consorzio tra Flacks Group, fondo americano, e il trader slovacco Steel Business Europe. Realtà con un approccio finanziario più che produttivo, abituate a muoversi tra ristrutturazioni e operazioni di mercato piuttosto che a gestire la complessità di un colosso siderurgico.

I grandi assenti: Baku Steel e Jindal, la fuga degli industriali

A rendere il quadro ancora più problematico è il ritiro dei due gruppi che apparivano come i candidati naturali: Baku Steel Company, sostenuta dall’Azerbaijan Investment Company, e l’indiana Jindal Steel International.

Baku Steel, secondo fonti italiane, avrebbe fatto marcia indietro per l’opposizione locale all’installazione di una nave rigassificatrice necessaria ad alimentare forni elettrici più sostenibili. Un esempio emblematico di come i nodi ambientali e la resistenza dei territori possano far naufragare anche i progetti meglio strutturati.

Jindal, invece, ha scelto di concentrare le proprie risorse su Thyssenkrupp, in Germania, segnale che altri Paesi europei risultano più attrattivi per gli investimenti industriali. Una fuga che suona come una condanna implicita alla credibilità del sistema italiano nel gestire grandi partite industriali.

Taranto, un gigante che non trova pace

L’ex Ilva non è una fabbrica qualunque. È stata per anni il più grande impianto siderurgico d’Europa, il simbolo di un’Italia capace di competere a livello globale. Ma insieme alla grandezza, Taranto ha ereditato anche il peso di decenni di cattiva gestione, scandali giudiziari e una delle più controverse eredità ambientali del continente.

Le malattie respiratorie e oncologiche nell’area circostante, i sequestri giudiziari, i tentativi falliti di rilancio: tutto concorre a fare della città pugliese non solo un caso industriale, ma una ferita sociale e ambientale che il Paese non ha mai saputo rimarginare.

Eppure, nonostante tutto, l’impianto resta “strategico”: troppo grande per fallire, troppo importante per la filiera industriale italiana ed europea per essere abbandonato.

I criteri ufficiali e le incognite reali

I commissari straordinari hanno fatto sapere che servirà tempo per valutare le offerte, con particolare attenzione a tre criteri: occupazione, piani di decarbonizzazione e entità degli investimenti.

Sono principi condivisibili, ma difficili da rispettare senza attori industriali forti. La decarbonizzazione richiede miliardi di euro e una visione a lungo termine. Il mantenimento dei livelli occupazionali impone capacità produttive elevate. Lo sviluppo sostenibile non può essere garantito da investitori il cui modello si fonda sul taglio dei costi e sulla massimizzazione dei ritorni finanziari.

La sensazione, tra analisti e lavoratori, è che i candidati oggi sul tavolo non abbiano né la forza né l’interesse a garantire un vero rilancio.

La voce dei sindacati: “Un fallimento totale”

Durissimo il giudizio di UILM, il sindacato dei metalmeccanici: “Il bando è stato un totale fallimento. I fondi in corsa non hanno alcuna credibilità industriale”.

Il timore è duplice. Da un lato, che un colosso da migliaia di posti di lavoro venga affidato a soggetti incapaci di gestirlo. Dall’altro, che il territorio di Taranto resti prigioniero di promesse irrealizzabili e continui a oscillare tra cassa integrazione e crisi ambientali.

Da qui la proposta che si fa strada con forza: la nazionalizzazione. “È l’unico modo – afferma UILM – per evitare la chiusura dell’impianto e un disastro senza precedenti”. Una strada che il governo finora ha evitato, ma che torna prepotentemente sul tavolo.

Il bivio della politica industriale italiana

Il destino dell’ex Ilva mette a nudo le contraddizioni della politica industriale italiana. Da un lato, la necessità di mantenere una produzione d’acciaio competitiva per l’intera economia nazionale. Dall’altro, l’urgenza di ridurre drasticamente l’impatto ambientale di uno stabilimento tra i più inquinanti d’Europa.

Il dilemma è chiaro: affidare l’impianto a fondi senza radici industriali, con il rischio di un futuro precario, o riportarlo sotto il controllo diretto dello Stato, accettando costi enormi e responsabilità complesse. In entrambi i casi, non si tratta solo di Taranto, ma del modello stesso con cui l’Italia sceglie di affrontare le grandi sfide della transizione industriale ed energetica.

Il paradosso del gigante senza padroni

La vicenda dell’ex Ilva non è soltanto una crisi industriale, ma una metafora dell’Italia contemporanea: un Paese sospeso tra il passato pesante delle sue grandi fabbriche e la difficoltà di immaginare un futuro sostenibile.

Taranto è un gigante senza padroni, troppo importante per essere lasciato andare, ma troppo fragile per attrarre veri campioni industriali. La scelta tra una privatizzazione zoppa e una nazionalizzazione costosa è una di quelle decisioni che segneranno un’epoca.

In gioco non c’è solo il destino di un’acciaieria: c’è la capacità dell’Italia di scrivere un nuovo capitolo per la sua economia strategica, conciliando industria, ambiente e lavoro. Se il Paese non riuscirà a farlo, il crepuscolo dell’acciaio rischia di diventare anche il simbolo del crepuscolo della sua ambizione industriale.

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