Rete unica. Per Open Fiber un salvataggio di Stato, spacciato per visione industriale?

| 15/04/2025

Chi pagherà il conto? Il rischio è che il conto sarà pagato dal sistema Paese, cioè da tutti noi. I promotori della rete unica sostengono che la fusione serva a razionalizzare gli investimenti e a evitare inutili duplicazioni. Ma anche in questo caso, la verità è un’altra. Eppure la via d’uscita c’è.

L’Italia è tra i fanalini di coda in Europa per quanto riguarda l’adozione della fibra FTTH, con una penetrazione ferma al 30%, a fronte di una media europea che supera il 50%.

Allo stesso tempo, Open Fiber – presentata e protetta come “campione pubblico” incaricato di cablare il Paese – è sommersa dai debiti e ha mancato gran parte degli obiettivi del PNRR.

Riparte la carica sulla rete unica

In questo scenario, che definire critico è un eufemismo, rispunta come un fungo la cosiddetta “rete unica” tra FiberCop e Open Fiber, un obiettivo che viene presentato come frutto di una strategia industriale visionaria.

Ma l’operazione è in effetti ben lontana dall’esserlo. E dietro un obiettivo così pomposo rischia di nascondersil’ennesimo salvataggio di Stato travestito da “riforma strutturale”. Ciò che affiora è invece un vistoso errore strategico che rischia di compromettere irreparabilmente la concorrenza, la trasparenza e il futuro digitale del Paese.

Open Fiber era partita con grandi ambizioni: portare la fibra in tutta Italia, creare un’alternativa pubblica al colosso ex monopolista, stimolare la concorrenza e attrarre investimenti. Invece, le performance sono state molto deludenti. Open Fiber ha accumulato ritardi clamorosi, ha mostrato una capacità operativa inadeguata, ha faticato a rispettare le tempistiche imposte dai bandi pubblici.

La rete unica usata come salvagente per Open Fiber

La domanda a questo punto è semplice: chi pagherà il conto? E la risposta è altrettanto ovvia: il conto sarà pagato dal sistema Paese, cioè da tutti noi.

I promotori della rete unica sostengono che la fusione serva a razionalizzare gli investimenti e a evitare inutili duplicazioni. Ma anche in questo caso, la verità è un’altra. Questa operazione serve a coprire le perdite di Open Fiber con i soldi – e le infrastrutture – degli altri attori privati ancora convinti di poter competere in un mercato aperto.

Gli equivoci politici e strutturali

Si parla di modello “wholesale only” e di approccio “pro-competitivo”. Ma in realtà si sta costruendo un monopolio infrastrutturale, formalmente neutro e separato, ma sostanzialmente controllato dal Ministero dell’Economia e da Cassa Depositi e Prestiti (CDP), ovvero dallo Stato. Il nuovo soggetto sarà quello che fissa le tariffe, decide le condizioni di accesso alle infrastrutture, stabilisce le priorità e i tempi degli investimenti, rispondendo agli stessi azionisti pubblici che oggi finanziano e proteggono Open Fiber. Il risultato è che il regolatore e l’operatore diventano la stessa cosa, dando luogo ad una commistione pericolosa, che mina la credibilità di qualsiasi sistema basato sulla concorrenza.

Nessuno si chiede cosa succederà agli operatori alternativi che si vedranno costretti a dipendere da un soggetto unico, controllato dallo Stato.

Nessuno si interroga su come potrà sopravvivere la competizione in un mercato dove la rete diventa unica e le regole le decide chi la possiede.

L’Europa, intanto, parla un’altra lingua

Bruxelles insiste sulla necessità di reti resilienti, interoperabili, orientate all’investimento privato e al co-investimento. Eppure, l’Italia risponde con una soluzione centralista, opaca, anti-competitiva. Si citano più volte, tirandoli per la giacchetta, Enrico Letta, Mario Draghi, la Digital Compass, ma si fa finta di non leggere ciò che realmente dicono.

Nessuno di essi invoca la creazione di un monopolista statale. Al contrario, tutti loro evidenziano l’importanza della concorrenza, della trasparenza e della scalabilità in un mercato dinamico.

Concorrenza e mercato come nemici?

Non è un caso che l’unica area in cui le reti di Open Fiber e FiberCop si sovrappongano davvero sia quella “nera”, l’unica in cui la concorrenza infrastrutturale esiste. Ed è proprio lì che si vuole eliminare ogni doppia presenza, col pretesto dell’efficienza. Ma in realtà, si sta cancellando l’unico vero spazio di libertà tecnologica rimasto nel Paese.

Chi pagherà il conto?

Il prezzo di questa operazione lo pagheremo tutti.
Lo pagheranno i consumatori, che si troveranno con meno scelta e meno qualità.
Lo pagheranno gli operatori privati, che dovranno sottostare a condizioni imposte da un monopolio pubblico.
Lo pagherà l’innovazione, perché un soggetto unico, per definizione, non ha incentivo a migliorarsi.
E lo pagherà anche l’Italia, che perderà attrattività agli occhi degli investitori esteri, sempre più scoraggiati da un sistema in cui la concorrenza è teorica e lo Stato interviene per salvare i suoi campioni falliti.

Quale via d’uscita?

Eppure, una via alternativa esiste. La rete unica non è inevitabile come il ciclo delle stagioni.
L’Italia può ancora scegliere un’altra strada: rilanciare la competizione infrastrutturale nei territori contendibili, garantire trasparenza nelle regole d’accesso e promuovere modelli di co-investimento realmente aperti.
La digitalizzazione del Paese non può fondarsi sull’eliminazione della concorrenza, né sulla protezione pubblica di un fallimento industriale.
Deve nascere da una visione lungimirante, in cui efficienza, apertura e innovazione siano una volta per tutte i pilastri fondanti.
La rete unica, così come è concepita oggi, è invece l’antitesi di tutto questo. È un passo falso.

Ed è un rischio che l’Italia non può permettersi.


 

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