C’è un’immagine che più di altre restituisce la portata del fenomeno: vasti magazzini di cemento e acciaio, colmi di chip e di infrastrutture di raffreddamento, alimentati da correnti imponenti di energia.
Sono i data center dedicati all’intelligenza artificiale, le nuove cattedrali digitali della contemporaneità. Attorno a queste strutture, che promettono di sostenere l’evoluzione dell’AI generativa, si concentra oggi una mole di investimenti colossale. Eppure, dietro la promessa di progresso, i numeri raccontano una storia diversa, segnata da squilibri che potrebbero minacciare non solo il settore tecnologico, ma l’intera economia globale.
Secondo Harris Kupperman, analista di Wall Street e Chief Investment Officer di Praetorian Capital, il 2025 vedrà la realizzazione di data center AI per un valore complessivo di circa 400 miliardi di dollari. Una cifra impressionante, che si traduce in un ammortamento annuo stimato di 40 miliardi, calcolato tenendo conto della rapida obsolescenza dei chip, della vita utile limitata delle infrastrutture tecnologiche e della durata pressoché indeterminata degli immobili.
A fronte di questi costi, il fatturato generato dall’AI appare del tutto insufficiente: 15–20 miliardi di dollari annui, un valore che non copre nemmeno la metà dell’ammortamento. Per raggiungere il pareggio, sarebbe necessario moltiplicare i ricavi per dieci volte, arrivando a 160 miliardi. Per garantire un ritorno sul capitale paragonabile ad altri settori, i ricavi dovrebbero toccare quota 480 miliardi: un livello che oggi solo colossi come Amazon, Walmart o la compagnia petrolifera saudita Aramco riescono a generare.
Per rendere più tangibile la sproporzione, basta guardare all’esempio di Netflix, citato nell’analisi di Andrea Bai: con 300 milioni di abbonati, il gigante dello streaming raccoglie 40 miliardi di dollari annui. Trasposto sul settore AI, un modello di business simile richiederebbe 3,7 miliardi di clienti, quasi la metà della popolazione mondiale. Un obiettivo non solo irrealistico, ma matematicamente impossibile nel breve e medio periodo. È qui che emerge la natura della “bolla”: una cattiva allocazione di capitale, spinta da un eccesso di fiducia nelle potenzialità di mercato dell’AI e da una sottovalutazione dei vincoli economici ed energetici.
Non è la prima volta che la storia economica si confronta con simili illusioni. Alla fine degli anni Novanta, il settore delle telecomunicazioni investì miliardi in infrastrutture di rete che rimasero inutilizzate per anni. Global Crossing, simbolo di quel boom, vide crollare il proprio valore di mercato del 97%. Oggi lo scenario rischia di ripetersi: i data center AI, lungi dall’essere un bene pubblico neutrale, assorbono energia, acqua e risorse finanziarie in un contesto già segnato dalle sfide della transizione ecologica e dalle tensioni geopolitiche legate alla sicurezza tecnologica.
Sia chiaro: non si tratta di negare la rilevanza dell’intelligenza artificiale. Come ricorda lo stesso Kupperman, l’AI è già entrata nei processi quotidiani di lavoro, trasformando la produzione di contenuti, la ricerca e persino le relazioni sociali. Ma riconoscere la portata innovativa dell’AI non significa ignorare l’aritmetica.
Oggi la traiettoria è quella di una corsa che si avvicina a un muro: i ricavi non sono e non saranno sufficienti a sostenere l’enorme apparato costruito attorno all’AI, se non a prezzo di nuove distorsioni economiche.
Il futuro dell’intelligenza artificiale non sarà deciso solo dai chip più potenti o dalla capacità dei modelli linguistici di generare testi convincenti. Sarà deciso dalla sostenibilità economica e ambientale delle infrastrutture che la sorreggono.
È questa la sfida che attende governi, imprese e società civile: capire se l’AI potrà davvero consolidarsi come motore di crescita, o se invece la sua corsa rischia di restare schiacciata sotto il peso di una matematica impietosa.

La questione non riguarda soltanto la sostenibilità dei bilanci aziendali, ma investe direttamente le scelte di politica industriale e di governance globale. Da un lato, la pressione competitiva spinge i grandi player tecnologici a continuare ad accumulare GPU, a costruire data center sempre più energivori e a promettere rendimenti futuri che al momento restano ipotetici. Dall’altro, l’urgenza di transizione ecologica, l’aumento dei costi energetici e la scarsità di risorse materiali sollevano interrogativi che non possono essere elusi: fino a che punto è giustificabile un tale dispendio di capitale e di energia per sostenere un modello economico che non trova riscontro nei ricavi reali?
Per i governi, ciò significa bilanciare la necessità di non perdere il treno dell’innovazione con l’obbligo di garantire equità e sostenibilità. Per le imprese, vuol dire ripensare le strategie di investimento e immaginare modelli di business che non si fondino solo sulla crescita illimitata, ma anche su efficienza, interoperabilità e reale utilità sociale dei servizi di AI.
Per la società civile, infine, la sfida è quella di mantenere uno sguardo critico, evitando di confondere l’entusiasmo per la tecnologia con la sua effettiva capacità di generare benessere diffuso.
Il futuro dell’intelligenza artificiale non si gioca solo sul terreno dell’innovazione tecnologica, ma soprattutto su quello della responsabilità collettiva. Se sapremo coniugare ambizione e prudenza, visione e concretezza, l’AI potrà diventare davvero un motore di progresso. Se invece prevarranno l’arroganza e la corsa cieca all’investimento, il rischio è che la promessa di una nuova era digitale finisca come altre bolle del passato: con un brusco risveglio e un conto salatissimo da pagare.