Nei giorni scorsi il ministro Valditara ha comunicato la prossima pubblicazione di una circolare che dal prossimo anno scolastico vieterà l’uso degli smartphone in classe. Nella settimana scorsa è stato reso pubblico il caso di un ragazzo di 15 anni che due anni fa è stato ricoverato all’ospedale San Luigi di Orbassano, in provincia di Torino, per una dipendenza grave che gli ha generato una crisi di astinenza. La droga in questione non è chimica, ma elettronica, fatta di hardware e di software: lo smartphone.
Un piccolo oggetto elegante e potentissimo, che giustamente preoccupa il ministro, e che ormai domina le vite di centinaia di milioni di persone nel mondo, in particolare quelle dei più giovani che lo frequentano più dei libri e degli affetti.
I genitori del quindicenne, esasperati dall’uso compulsivo del figlio, avevano deciso di sottrargli il cellulare. La sua reazione è stata del tutto imprevista: una crisi acuta, con sintomi che i medici hanno descritto come esattamente uguali a quelli di una persona in astinenza da sostanze stupefacenti. Irritabilità estrema, agitazione, ansia incontrollabile e la necessità di ricorrere a forti ansiolitici per sedare la tempesta emotiva e fisica. Un ricovero per condizioni psichiatriche associate, che accende un faro sulla drammaticità di un problema fin troppo spesso sottovalutato o liquidato come semplice cattiva abitudine. Come un vezzo a cui non si riesce a rinunciare: stare continuamente collegati alla Rete, ai social, al mondo digitale che riempie le giornate, soprattutto quelle dei giovani.
Il caso raccontato è soltanto la punta dell’iceberg di un fenomeno che sta assumendo i contorni di una vera e propria emergenza sanitaria e sociale. I dati più recenti dipingono un quadro a molto preoccupante sull’Italia dei giovanissimi, letteralmente immersa nel mondo digitale, dal quale emergono con difficoltà, come se il mare di algoritmi che riempie i loro cellulari impedisca loro uscire dai suoi flutti.
Secondo il Dipartimento Politiche Antidroga e l’Istituto Superiore di Sanità, circa 700.000 adolescenti nel nostro Paese sono a rischio di sviluppare una dipendenza da social media e da videogiochi. Un numero impressionante, che quasi eguaglia o supera la popolazione di una grande città come Palermo o Genova. Se poi ampliamo lo sguardo agli under 35, le cifre diventano ancora più allarmanti: uno studio Demoskopika di febbraio 2024 parla 1,1 milioni di italiani in questa fascia d’età a rischio di dipendenza dai social media. Sono persone che hanno bisogno di usare spesso i social, non riescono a smettere di impiegarli e vivono comportamenti ansiosi o agitati legati al mancato utilizzo dei social, sacrificando anche ore di studio o di lavoro per stare online.
Purtroppo, il problema non riguarda soltanto gli adolescenti. L’età di accesso ai dispositivi digitali si abbassa in modo preoccupante, con effetti ancora ignoti sullo sviluppo cognitivo e relazionale dei ragazzi. Un report di Save the Children di aprile 2025 ha rivelato che in Italia circa un bambino su tre tra i 6 e i 10 anni (il 33%) usa lo smartphone tutti i giorni. È una tendenza in costante aumento negli ultimi anni, nel 2018-2019 erano il 18%, con una netta prevalenza al Sud e nelle Isole, dove la quota sale al 44%. Inoltre, il 62% dei preadolescenti (dagli 11 ai13 anni), quindi oltre tre su cinque, ha almeno un account social, il 35,5% usa più social media.
Questo scenario evidenzia grandi responsabilità delle famiglie e dei genitori in particolare. Come non avessero la consapevolezza dell’errore educativo di lasciare i ragazzini nelle mani degli algoritmi del Web, dei social e dei videogiochi. Purtroppo, gli effetti deleteri sui loro figli si vedranno tra alcuni anni e forse a quel punto sarà difficile risolvere il problema. Infatti, l’impatto di questa “immersione digitale” precoce e prolungata è molteplice e devastante. I giovani italiani passano in media fino a sei ore al giorno interagendo con il proprio smartphone, controllandolo oltre cento volte al giorno. Ore sottratte al gioco all’aperto, allo sport, alla lettura, alla riflessione, ma soprattutto all’interazione faccia a faccia con i coetanei e con gli adulti, in una parola con il mondo reale.
Le conseguenze sulla loro salute mentale sono forse le più gravi e preoccupanti. Diversi studi e report, tra cui quello dell’OMS, hanno correlato l’uso eccessivo degli smartphone e dei social media con un aumento esponenziale dei casi di ansia, depressione e, nei casi più estremi, di autolesionismo tra gli adolescenti. Il confronto costante con vite ‘perfette’ (spesso manipolate dagli algoritmi per mostrarle migliori di come sono e quindi irreali) sui social media genera insicurezza, bassa autostima e la perenne sensazione di essere inadeguati o esclusi. La FOMO (Fear Of Missing Out), la paura di perdersi qualcosa se non si è costantemente connessi, diventa un’ansia pervasiva. Per le ragazze, in particolare, la percentuale di possibile dipendenza dai social media è più alta, con evidenti ricadute sull’umore, la stanchezza cronica e una profonda sensazione di solitudine nonostante la costante ‘connessione digitale’.
Non da meno sono gli effetti sul rendimento scolastico. Il calo di concentrazione, i disturbi del sonno causati dall’uso notturno dei dispositivi e la distrazione costante generano una diminuzione delle prestazioni e un disinteresse crescente per le attività didattiche. Valditara, dunque, fa bene a prendere sul serio il problema e ad attuare delle soluzioni drastiche. In altri Paesi questo già avviene, ad esempio in Francia, il divieto dell’uso dei telefoni cellulari per gli studenti delle scuole primarie è in vigore già dal 2018 e da quest’anno verrà esteso alla scuole medie. Naturalmente per invertire questa pericolosa tendenza, serve anche e soprattutto una educazione al digitale, programmi scolastici per fornire le necessarie conoscenze delle tecnologie e in questo senso, se si escludono poche sperimentazioni, la scuola italiana fa ancora molto poco.
Ironia della sorte, uno strumento nato per connettere le persone, le sta paradossalmente isolando. Le interazioni online spesso sostituiscono quelle fisiche, impoverendo la capacità di gestire le dinamiche relazionali complesse del mondo offline, portando talvolta a veri e propri fenomeni di ritiro sociale, come quello degli hikikomori, ragazzi che ormai vivono isolati nelle loro camerette continuamente connessi in Internet e sconnessi anche dalle loro famiglie.
Il caso del quindicenne di Torino non può essere considerato come isolato e segnala una situazione di allarme che non si può più ignorare. Ovviamente non si tratta di demonizzare la tecnologia, che offre immense opportunità, ma di promuovere un uso consapevole e responsabile. Quindi, come accennato, la soluzione non può essere soltanto repressiva. È necessaria una prevenzione capillare che parta dalle famiglie, dalle scuole e dalle istituzioni. I genitori devono essere i primi a dare il buon esempio, rivedendo il proprio rapporto con lo smartphone, e stabilendo regole chiare sui tempi e le modalità di utilizzo per i figli. È fondamentale incoraggiare attività alternative, che favoriscano il movimento, la creatività e la socializzazione reale.
Le scuole, d’altra parte, non si devono limitare a impedire l’uso degli smartphone, devono educare i ragazzi a un uso informato e consapevole. La scuola ha un ruolo cruciale nell’educazione digitale. Deve insegnare agli studenti a gestire criticamente i contenuti online e a riconoscere i segnali di un uso problematico, ma deve anche insegnare a comprendere come funzionano gli algoritmi e come usare i sistemi di intelligenza artificiale, per sfruttarli utilmente per acquisire maggiori competenze. Questo però non sarà possibile finché non ci saranno insegnanti in grado di spiegare ai ragazzi cosa è realmente l’intelligenza artificiale, come usare i sistemi di IA utilmente, come evitare di diventarne vittime.
Il futuro dei nostri figli e della nostra società va costruito a partire dalla nostra capacità di affrontare questa sfida grande digitale. La scuola, insieme alle famiglie dovrà essere in grado di trasformare i rischi del digitale e dell’IA in opportunità di crescita e benessere, altrimenti altri casi come quelli del ragazzo torinese riempiranno le pagine della cronaca e i danni sociali aumenteranno.