L’intelligenza artificiale è diventata il nuovo terreno di proiezione delle nostre paure e speranze. Da un lato, il racconto di un futuro in cui macchine sempre più “intelligenti” soppiantano l’uomo in ogni attività; dall’altro, la promessa di un’inedita stagione di benessere, in cui la tecnologia libera tempo e crea nuove opportunità. Come spesso accade nei passaggi di cesura storica, la verità si colloca in una zona intermedia, meno spettacolare ma più feconda: non una rivoluzione totale e immediata, bensì una trasformazione graduale, contraddittoria, che dipenderà dalle scelte politiche, economiche e organizzative.
Il punto di partenza di ogni analisi seria è distinguere tra esposizione e sostituzione. Gli studi più recenti – da Goldman Sachs all’Organizzazione Internazionale del Lavoro – parlano di centinaia di milioni di posti “esposti” all’automazione, ma ciò non significa che verranno cancellati.
L’esposizione segnala che alcune mansioni possono essere svolte, almeno in parte, da sistemi generativi; la sostituzione avviene solo se le imprese decidono effettivamente di affidare quei compiti alle macchine, riorganizzando processi e ruoli. Nel mezzo, vi è un ventaglio di scenari che vanno dalla complementarità – il lavoratore che si avvale dell’AI come supporto – alla trasformazione della mansione, fino alla perdita netta di posti in specifici settori o territori.
Le evidenze empiriche confermano questa complessità. In un ampio esperimento condotto su migliaia di addetti al customer service, l’uso di AI generativa ha aumentato la produttività media del 14%, con effetti più significativi sui lavoratori meno esperti, riducendo le disuguaglianze di performance interne. Studi analoghi su professionisti della scrittura hanno mostrato risparmi di tempo e miglioramenti qualitativi in testi standardizzati. Ma i risultati sono meno incoraggianti quando si passa a compiti non strutturati, creativi o di responsabilità critica: qui la macchina fatica, e il rischio di errori diventa rilevante se non si introducono protocolli di verifica e controlli di qualità. Non è dunque vero che “tutti i lavori spariranno”, né che la rivoluzione sarà indolore. Ciò che cambia non è solo la quantità di occupazione, ma la sua qualità, il contenuto delle mansioni, la distribuzione geografica e settoriale. È proprio in questa zona grigia che si gioca il futuro del lavoro.
L’Italia, con la sua struttura produttiva fortemente polarizzata tra grandi multinazionali e piccole e medie imprese, rischia di sperimentare in modo amplificato queste fratture.
Un altro nodo riguarda le competenze. La retorica della “nuova economia umana” invita a coltivare abilità relazionali, empatia, capacità di ascolto: qualità che la macchina non può replicare.
Ma la realtà è più complessa. L’AI, se integrata in modo intelligente, può ampliare il raggio d’azione di figure professionali di medio livello, restituendo dignità e autonomia a lavori oggi compressi da burocrazia o routine. Come ha osservato l’economista David Autor, esiste una possibilità concreta di ricostruire una classe di “middle-skill jobs” che l’automazione precedente aveva eroso. Non accadrà però spontaneamente: servono politiche di formazione mirata, incentivi all’adozione responsabile e contrattazione che ridisegni ruoli e tutele.
Dietro l’euforia tecnologica si nasconde anche un tema di concentrazione dei mercati. I costi enormi di calcolo, la scarsità di dati di qualità e la dipendenza dalle infrastrutture cloud rendono difficile a una piccola impresa competere con i grandi attori globali. Parlare di imprenditorialità diffusa senza affrontare il nodo dell’accesso agli input critici rischia di essere un’illusione.
L’innovazione “dal basso” potrà fiorire solo se le istituzioni garantiranno interoperabilità, neutralità delle piattaforme, accesso equo a dati e risorse computazionali. Accanto alle grandi narrazioni sull’automazione si colloca una realtà quasi invisibile: la filiera del lavoro nascosto che alimenta l’AI. Migliaia di persone nel mondo svolgono attività di etichettatura dei dati, moderazione dei contenuti, verifica degli output. Sono lavori frammentati, spesso malpagati e privi di tutele, ma essenziali per il funzionamento dei modelli. Parlare di “intelligenza artificiale” senza includere questi lavoratori significa ignorare la catena sociale che sorregge l’innovazione. Politiche di appalto responsabile, clausole sociali nei contratti e standard di trasparenza sono strumenti imprescindibili per restituire dignità a questa componente della forza lavoro globale.
Non meno importante è il tema del benessere. L’adozione massiccia di strumenti di AI avviene in società già segnate da un’epidemia di solitudine e da un bisogno crescente di connessione. Le ricerche della Commissione europea e i report del Surgeon General statunitense parlano chiaro: il capitale sociale è fragile, e la tecnologia, se mal progettata, può accentuare isolamento e alienazione. In questo contesto, il richiamo a un’economia umana non deve restare uno slogan: occorre disegnare lavori che promuovano relazioni e autonomia, anziché ridurre l’individuo a ingranaggio di processi automatizzati. Sul piano normativo, l’Europa ha tracciato una rotta con l’AI Act, entrato in vigore nell’agosto 2024. È il primo regolamento organico che classifica i sistemi in base al rischio, imponendo obblighi specifici ai fornitori e fissando tutele per gli utenti. Le implicazioni sul lavoro sono profonde: i datori che utilizzano sistemi ad alto rischio dovranno garantire trasparenza, auditabilità e supervisione umana. È un banco di prova decisivo per trasformare la retorica in pratica regolata, e per dimostrare che l’innovazione può essere incanalata dentro un perimetro di diritti.
Guardando all’Italia, la posta in gioco è duplice. Da un lato, c’è l’esigenza di non restare indietro rispetto ai paesi che stanno già integrando l’AI nei processi produttivi con investimenti massicci; dall’altro, la necessità di proteggere il tessuto sociale ed economico da impatti distorsivi. Non si tratta di scegliere tra entusiasmo e paura, ma di disegnare un progetto di trasformazione che tenga insieme competitività e coesione. La sfida è chiara: se l’AI diventerà uno strumento di polarizzazione o, al contrario, un motore di inclusione dipenderà dalle politiche attive, dalla formazione, dalla contrattazione e dalla capacità di garantire accesso equo all’ecosistema tecnologico.
Lavoro e intelligenza artificiale non sono dunque termini di un’equazione a somma zero. Sono elementi di un sistema in movimento, che può produrre scenari molto diversi e che non può essere compreso se non tenendo conto delle dinamiche economiche, sociali e culturali che lo attraversano.
Le macchine, per loro natura, non decidono: esse calcolano, inferiscono, propongono. La decisione, la direzione e la responsabilità restano invece nelle mani degli attori umani e collettivi – istituzioni, imprese, cittadini – chiamati a orientare l’innovazione secondo principi di equità, trasparenza e inclusione. Il vero bivio non è tra sostituzione o sopravvivenza, ma tra il lasciare che la trasformazione sia guidata da pochi, secondo logiche di rendita e concentrazione del potere, oppure costruire un progetto collettivo che assegni all’AI un ruolo di strumento abilitante. In questo senso, la posta in gioco è eminentemente politica: si tratta di scegliere se l’intelligenza artificiale diventerà un fattore di polarizzazione sociale e di nuove diseguaglianze, o se potrà al contrario alimentare coesione, rilanciare il lavoro di qualità e rafforzare la capacità dei territori di innovare.
L’Italia, con il suo tessuto produttivo diffuso e le sue fragilità strutturali, ha davanti a sé una responsabilità ancora maggiore: trasformare la sfida in occasione di crescita civile e non in terreno di nuove esclusioni. Ciò significa investire in formazione, accompagnare le piccole e medie imprese, tutelare i lavoratori delle filiere invisibili e garantire che l’adozione dell’AI avvenga in un quadro di diritti pienamente riconosciuti. Il futuro del lavoro nell’era dell’intelligenza artificiale non sarà scritto da algoritmi, ma dalla qualità delle nostre istituzioni e dalla maturità delle nostre scelte collettive. Sta a noi decidere se la tecnologia resterà un moltiplicatore di disuguaglianze o se potrà diventare, finalmente, un laboratorio di cittadinanza e democrazia economica.