La rivolta dei perdenti tecnologici. Quando la paura diventa business

| 28/04/2025

La storia si ripete sempre allo stesso modo. Arriva un’innovazione e immediatamente si scatenano gli squadroni dei disoccupati professionali, dei conservatori tecnologici, dei “pagatemi per non fare niente”. Un copione vecchio come il mondo, che oggi si ripropone con l’intelligenza artificiale come protagonista principale.

Nell’era digitale, la resistenza al cambiamento è diventata un modello di business. Non importa quale sia la tecnologia rivoluzionaria: macchine, computer, internet, ora l’AI. C’è sempre un esercito di professioni che si ergono a vittime di un progresso che “gli ruberebbe il lavoro”.

Ma la verità è molto più semplice: non è il lavoro che scompare, sono le persone che non sanno (o non vogliono) aggiornarsi. Quante volte nella storia abbiamo sentito questa litania? I tipografi contro la stampa offset, i camerieri contro i distributori automatici, i cassieri contro i self-service, i taxisti contro Uber.

L’ultima frontiera sono gli artisti, i giornalisti, i content creator che vedono nell’intelligenza artificiale un mostro divora-carriere. Dimenticando che ogni rivoluzione tecnologica non distrugge i lavori, li trasforma. Non elimina le professioni, le eleva.

Prendiamo i giornalisti. Invece di vedere l’AI come uno strumento per velocizzare la ricerca, approfondire le analisi, generare spunti di inchiesta, la vedono come una minaccia. Ma un giornalista che si limita a copiare e incollare non è un giornalista, è un trascrittore. L’AI può fare quel lavoro, certo. Ma il vero giornalismo richiede empatia, scelta, contestualizzazione. Richiede un occhio umano che l’algoritmo non avrà mai.

Lo stesso vale per i fotografi, i grafici, i creativi. L’AI genererà immagini? Benissimo. Ma una foto che racconta una storia, un’immagine che trasmette emozioni, quella rimane patrimonio esclusivo dell’uomo. L’arte non è riproduzione, è interpretazione.

I musicisti poi sono campioni di questa retorica del piagnisteo tecnologico. Alcuni si lanciano in cause legali contro le piattaforme AI che “ruberebbero” il loro stile. Ad essi ovviamente si affiancano le case discografiche, molto più ingorde e temibili.

Ma la musica è sempre stata contaminazione, ispirazione, rimescolamento. Un musicista che non accetta l’evoluzione è già fuori dal mercato. E a questo proposito è interessante ricordare la denuncia presentata da tre case discografiche contro Anthropic per violazione di copyright: la giudice ha respinto la denuncia perché le case non hanno dimostrato come questo possa realmente comportare dei danni.

Il punto non è difendersi dall’innovazione, ma cavalcarla. Non è chiedere risarcimenti, ma aggiornarsi. Ogni volta che la tecnologia avanza, c’è chi vede ostacoli e chi vede opportunità.

Le multinazionali del digital divide sono sempre le stesse, quelle che per decenni hanno esteso i loro diritti grazie alla potenza delle loro lobby nel condizionare i politici. A cui si affiancano sindacati arrugginiti, ordini professionali autoreferenziali, associazioni di categoria che fanno dell’immobilismo la loro bandiera. Non sono altro che parassiti di un sistema che non esiste più, che sperano di vivere di rendita invece di mettersi in gioco.

L’economia non è un museo dove conservare mestieri obsoleti. È un ecosistema dinamico dove solo chi si adatta sopravvive. Darwin lo diceva già: non è il più forte a vincere, ma il più adattabile.

Chi oggi chiede soldi alle aziende tech per non essere “danneggiato” dall’AI è esattamente come chi nel 1900 avrebbe chiesto un risarcimento alle ferrovie per aver “rovinato” il mestiere di carrettiere. È grottesco, è miope, è perdente.

Il futuro appartiene a chi è curioso, a chi impara, a chi vede nella tecnologia non un nemico ma un alleato. Chi si aggiorna non perde il lavoro, lo reinventa. Chi si adatta non muore, evolve.

L’intelligenza artificiale non ruberà il tuo lavoro. Lo renderà più interessante, più profondo, più umano. Se sei bravo, ovviamente. Se no, c’è sempre la modalità “vittima” da spuntare.

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