Quando i CEO dei principali operatori di telecomunicazioni europei si riuniscono a Bruxelles, il linguaggio è sempre altisonante: prosperità, resilienza, competitività, sicurezza. Le dichiarazioni di questi giorni non fanno eccezione. Mascherate da appelli agli investimenti in reti, intelligenza artificiale e sovranità digitale, rivelano invece una richiesta ormai ben nota: meno vincoli regolatori, più sussidi e maggiore libertà di concentrare i mercati a livello nazionale.
Spogliato della retorica sulla “democratizzazione dell’AI” e sul “rafforzamento della capacità di calcolo sovrana”, ciò che rimane è un settore che da due decenni fatica a mantenere le proprie promesse. Nonostante miliardi di euro di sostegno pubblico, l’Europa resta molto indietro rispetto all’Asia e agli Stati Uniti in termini di copertura in fibra fino a casa, servizi cloud e reti di nuova generazione. Parlare di “democratizzare l’intelligenza artificiale” suona vuoto quando il modello di business si basa su abbonamenti costosi, ecosistemi chiusi e paywall.
Il passaggio più rivelatore riguarda il Digital Networks Act, dove i CEO invocano una “svolta ambiziosa” che consentirebbe, di fatto, la concentrazione dei mercati a livello nazionale. In pratica, ciò significherebbe ridurre il numero di operatori in ogni paese e rafforzare ulteriormente la posizione dominante degli incumbent. Una ricetta non per la competitività, ma per l’oligopolio — con prezzi più alti, meno scelta e incentivi più deboli all’innovazione. Non sorprende che gli operatori si oppongano a un vero mercato unico europeo delle telecomunicazioni: sanno bene che un mercato integrato aumenterebbe la concorrenza e metterebbe in discussione i privilegi di cui godono nei loro domini nazionali protetti.
Il divario non è solo infrastrutturale, ma anche strutturale. L’Europa conta circa 100 operatori mobili nazionali, ciascuno con una base media di circa 5 milioni di abbonati, mentre negli Stati Uniti solo tre grandi operatori servono oltre 100 milioni di clienti ciascuno — come in Cina, dove ogni operatore serve centinaia di milioni di utenti. Questa frammentazione impedisce di realizzare economie di scala, aumenta i costi di rete e costringe gli operatori europei a rimanere confinati in silos nazionali invece di beneficiare di un autentico mercato unico paneuropeo.
La verità è che l’unico modo per costruire un vero mercato unico europeo delle telecomunicazioni è separare le reti dai servizi: creare operatori solo all’ingrosso (wholesale-only) a livello nazionale — poiché l’accesso è inevitabilmente locale — e al contempo favorire un mercato dei servizi pienamente integrato e competitivo a livello paneuropeo. Solo così l’Europa potrà garantire reale concorrenza, costi più bassi, maggiore innovazione e un accesso equo per tutti i fornitori di servizi digitali.
L’invocazione della geopolitica e delle “nuove minacce alla sicurezza” è altrettanto strumentale. L’Europa ha certamente bisogno di infrastrutture digitali più solide. Ma la sovranità non si costruisce con i comunicati stampa o con le campagne di lobbying: richiede investimenti in reti aperte, sostegno alle PMI e alle startup, e un quadro normativo che promuova la concorrenza autentica. Quello che questi CEO chiedono davvero è una protezione dalla concorrenza, mascherata da difesa dell’autonomia strategica europea.
Se l’Europa vuole davvero colmare il suo divario digitale, la risposta non è concedere ulteriori privilegi agli stessi incumbent che hanno fallito in passato. La vera priorità è una politica industriale che promuova il modello wholesale-only, stimolando così investimenti che accrescano la competizione a valle — portando a più scelta, migliore qualità e maggiore dinamismo nel mercato al dettaglio.