Il GDPR e l’argine invisibile: perché l’Europa ha vinto la sfida strategica ma non quella operativa

| 06/10/2025

Qualche settimana fa, in un tavolo tecnico alla Camera dei Deputati, il Prof. Francesco GIORGIANNI ha osservato che il GDPR ha avuto il merito di contenere la dispersione dei dati personali degli europei nel mondo. Una riflessione semplice ma profonda, che mi ha colpito perché restituisce l’essenza di ciò che il regolamento generale sulla protezione dei dati ha fatto: ha creato un argine invisibile contro l’abuso globale dei dati.

Prendo spunto da quelle parole per sviluppare un’analisi: il GDPR ha vinto la sfida strategica ma fatica ancora a tradursi in pratica nelle officine quotidiane di aziende e istituzioni. Perché? E cosa ci insegna questa distanza tra principi e vita concreta?

L’immagine dell’argine invisibile

Le parole del Prof. GIORGIANNI mi hanno colpito per la loro limpidezza.
In pochi secondi hanno restituito ciò che spesso gli addetti ai lavori faticano a spiegare in interi convegni: il GDPR ha funzionato come un argine invisibile.
Invisibile perché non si vede, eppure c’è; invisibile perché non blocca ma regola; perché non si esprime con muri ma con principi.
Il regolamento europeo ha agito come fanno le grandi opere idrauliche che non impediscono all’acqua di scorrere ma ne controllano la forza, la canalizzano e ne traggono energia.
Senza argini, l’acqua devasta, con un argine, l’acqua diventa risorsa.
Così è stato per i dati. Senza regole, i dati sarebbero finiti ovunque: comprati e rivenduti, catturati da sistemi di sorveglianza, sfruttati come nuova materia prima del potere digitale.
Con il GDPR, invece, quei flussi sono stati ricondotti dentro una logica di responsabilità e di dignità.
Questo è stato il merito più grande di questa preziosa normativa: avere costruito un limite strategico, non per fermare ma per governare.
Eppure, un argine che resta invisibile non basta se non si traduce in infrastruttura tangibile, atta di pratiche quotidiane.

La vittoria strategica

Nessuno può negare che il GDPR abbia vinto la sua battaglia strategica. Lo ha fatto almeno su tre fronti.
Sul piano geopolitico, ha obbligato giganti tecnologici americani e asiatici a rispettare le regole europee. Non era mai successo che l’Europa imponesse al mondo una normativa con questa forza extraterritoriale. Le sanzioni milionarie inflitte ad alcune Big Tech hanno dimostrato che non si trattava di una minaccia simbolica ma di un potere reale.
Sul piano economico, ha reso la protezione dei dati un fattore competitivo. Le aziende oggi non possono più ignorare la compliance perché:

  • i clienti chiedono trasparenza;
  • gli investitori valutano la gestione dei dati come segnale di affidabilità;
  • i contratti internazionali includono sempre clausole di protezione.

Il GDPR ha spostato il terreno del confronto: non basta più innovare, bisogna innovare responsabilmente.
Sul piano culturale, ha cambiato il linguaggio delle persone. Parole come consenso, diritto all’oblio, accountability sono entrate nella vita quotidiana. Oggi ogni cittadino sa di poter chiedere conto del destino dei propri dati; ieri non avrebbe neppure sospettato che fosse un suo diritto.
Ecco perché la riflessione del Prof. GIORGIANNI coglie il cuore della questione.
Il GDPR ha davvero funzionato come argine strategico perché:

  • ha impedito la dispersione incontrollata dei dati;
  • ha segnato un cambio di paradigma;
  • ha restituito all’Europa una voce propria nel grande concerto digitale.

Il divario con la realtà quotidiana

Ora c’è da chiedersi: se il GDPR ha vinto sul piano strategico perché non riesce a vincere su quello operativo?
Troppo spesso, dietro le quinte di aziende e istituzioni, il GDPR si riduce a carta: registri formali, informative ignorate, misure mai testate, valutazioni fatte per rito e non per governare il rischio.
Il GDPR ha fissato principi chiari ma ha lasciato aperta la questione delle soglie operative. Ha parlato di misure “adeguate”, di rischi “elevati”, di risposte “tempestive”. Ma le organizzazioni ancora non comprendono questo nuovo linguaggio: che cosa significa, in concreto, adeguato? Quanto è tempestivo? Dove finisce il rischio accettabile e dove inizia quello inaccettabile?
In attesa di avviare un processo di alfabetizzazione funzionale, molte organizzazioni oscillano tra due estremi:

  • da un lato attuano un formalismo sterile: producono carta, archiviano, fanno finta di essere conformi;
  • dall’altro realizzano l’immobilismo: si paralizzano di fronte all’incertezza rimandando ogni scelta a un domani che non arriva mai.

Questo divario tra principi e pratica è la grande crepa del GDPR che ha vinto come argine ma, purtroppo, ancora fatica a diventare infrastruttura viva.

Una questione culturale prima che tecnica

Il problema che il GDPR incontra nell’attuazione quotidiana non è solo di metodo o di tecnologia ma è, innanzitutto, un problema culturale. In troppe organizzazioni la privacy è ancora vista come burocrazia: un adempimento che rallenta i processi e serve solo a evitare sanzioni. Non viene percepita come un valore essenziale da proteggere e coltivare.
Ma questa è una visione miope perché i dati non sono mai neutrali.
Ogni dato custodisce pezzi di vita: diagnosi mediche, relazioni affettive, crediti, convinzioni politiche o religiose, percorsi professionali.
Difendere i dati significa difendere la persona intera.
Esporli senza protezione significa lasciare l’individuo nudo di fronte a poteri tecnologici e finanziari che hanno la capacità di condizionare scelte, orientare consumi, influenzare voti.
Il paragone con la sicurezza sul lavoro è illuminante.
Anche lì, agli inizi, le normative erano viste come burocrazia inutile, come vincoli che pesavano sulla produzione.
Poi col tempo, e purtroppo anche attraverso tragedie, si è consolidata una coscienza collettiva: la vita umana non è un costo ma il bene supremo. Oggi nessuno metterebbe in dubbio che la sicurezza sia parte integrante di ogni processo produttivo.
Così dovrà avvenire per la protezione dei dati.
Un data breach non è solo un incidente informatico: è una ferita alla dignità.
Un’informativa ingannevole non è solo un errore di forma ma un tradimento della fiducia.
Una cancellazione di dati mai eseguita non è una svista ma un atto di disinteresse verso la persona.
Finché non comprenderemo questo, il GDPR resterà un linguaggio nobile che fatica a incarnarsi nella vita reale.

Dall’argine all’infrastruttura

Quindi, la vera sfida oggi è trasformare il GDPR da argine strategico a infrastruttura operativa.
Un argine difende ma un’infrastruttura sostiene la vita di tutti i giorni: rende possibile muoversi, lavorare, crescere.
Questo significa portare la protezione dei dati dentro la struttura stessa delle organizzazioni.
Significa sapere davvero dove si trovano i dati, come si muovono, chi li utilizza e per quanto tempo restano conservati. Significa fissare controlli concreti e misurabili: se la norma parla di “misure adeguate”, allora queste parole vanno tradotte in analisi del contesto, valutazione dei rischi, governo efficace dei processi, con prove e documenti che testimonino ciò che si è fatto.
Vuol dire anche scegliere i fornitori con metodo, senza accontentarsi delle loro dichiarazioni di principio. Le catene digitali sono lunghe e spesso opache: senza verifiche serie e senza clausole chiare nei contratti, il rischio resta intatto. Allo stesso modo, i sistemi informatici devono nascere con la privacy incorporata, non come ripensamento dell’ultimo momento. Ogni software, ogni aggiornamento, ogni cambiamento va costruito e validato includendo la protezione dei dati fin dall’inizio.
E infine, significa formare le persone con percorsi mirati, modellati sul loro ruolo. Perché la privacy non è responsabilità del solo DPO, ma di chiunque tratti dati: dall’impiegato dell’anagrafe al medico che consulta una cartella clinica, dall’analista IT al manager che progetta una campagna di marketing.
Quando tutto questo diventa abitudine, il GDPR smette di essere un principio astratto e si trasforma in capacità organizzativa. Non più promessa sulla carta, ma pratica viva che regge la macchina ogni giorno.

La dimensione geopolitica

C’è poi un aspetto che va oltre il perimetro delle aziende e degli enti pubblici: la geopolitica.
Il GDPR rappresenta la dichiarazione di indipendenza digitale dell’Europa perché ha detto al mondo che il Vecchio Continente non è disposto a consegnare i suoi cittadini al mercato senza regole né al controllo politico centralizzato.
Però oggi il confronto globale è più acceso che mai.
Gli Stati Uniti avanzano con normative frammentate, guidate da logiche di mercato.
La Cina prosegue sulla via del controllo politico, dove i dati sono strumento di sorveglianza.
L’Europa, in mezzo, cerca di difendere la sua via fondata sulla dignità della persona.
Per essere credibile, però, non basta avere buone leggi. Occorre dimostrare che funzionano davvero.
Ecco perché un GDPR che resta sulla carta perde forza geopolitica mentre un GDPR che diventa infrastruttura viva mostra al mondo che innovazione e diritti possono coesistere.
È una questione di prestigio e di influenza.

Conclusioni

La frase del Prof. GIORGIANNI, pronunciata quasi di passaggio in un confronto istituzionale, contiene una lezione profonda.
Il GDPR ha funzionato come argine invisibile, impedendo la dispersione dei dati europei nel mondo.
È stata una vittoria strategica straordinaria ma ora dobbiamo riconoscere che l’argine da solo non basta.
Serve che diventi infrastruttura viva, capace di reggere la pressione quotidiana dei flussi digitali, perché in gioco non c’è solo la conformità a una norma ma la qualità della nostra democrazia.
Ogni dato custodito è un frammento di vita protetto.
Ogni dato violato è una vita esposta.
Il GDPR non è burocrazia, è civiltà e la sua forza non dipenderà da quante informative scriveremo ma da quanto sapremo trasformarlo in capacità organizzativa.
L’argine ha retto. Ora tocca a noi renderlo infrastruttura.

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