Siamo nel 2025, l’intelligenza artificiale ha trasformato ogni settore produttivo, rivoluzionato il mondo del lavoro e modificato persino il nostro modo di pensare.
Eppure, in un recente video di Tecnica della Scuola pubblicato su YouTube (www.youtube.com/watch?v=kwoDgQ2Yb9g) emerge un dato che dovrebbe far sobbalzare sulla sedia qualsiasi cittadino che abbia a cuore il futuro del paese: “Oltre il 56% degli insegnanti sostiene di non aver ricevuto alcuna preparazione sull’uso dell’IA in classe”.
Non aver ricevuto preparazione. Come se un insegnante fosse un recipiente vuoto in attesa che qualcuno versi dall’alto il sapere. Come se l’apprendimento fosse un dono che cade dal cielo, magari durante uno dei tanti, troppi, corsi di aggiornamento obbligatori che affollano il calendario scolastico italiano.
Da un bambino di dieci anni potremmo anche accettare una simile dichiarazione, in fondo, i bambini aspettano legittimamente che gli adulti insegnino loro. Ma non è ammissibile che questo accada anche con un insegnante, che dovrebbe essere il paladino della conoscenza, il campione dell’apprendimento continuo, il modello dell’autonomia intellettuale!
Ecco servito un paradosso tutto italiano: chi dovrebbe insegnare ad imparare confessa candidamente di non saper imparare da solo.
L’insegnante in attesa: un ritratto tragicomico
Immaginiamo la scena: l’insegnante italiano medio, seduto alla cattedra, braccia conserte, in attesa che qualcuno (il ministero? Un corso di formazione? L’illuminazione divina?) gli spieghi come funziona l’AI e come usarla. Nel frattempo, i suoi studenti hanno già integrato l’intelligenza artificiale nella loro vita quotidiana, scrivono temi con l’aiuto di sistemi di AI, risolvono problemi di matematica con app dedicate, e forse stanno persino progettando la startup che rivoluzionerà il mercato del domani.
“Non ho ricevuto preparazione”, dice l’insegnante. Come se fosse impossibile aprire un browser, digitare “intelligenza artificiale e didattica” e imparare. Come se nel 2025 fossimo ancora all’epoca in cui la conoscenza era custodita in biblioteche lontane o in tomi polverosi accessibili solo a pochi eletti.
Questo dimostra che una buona parte del corpo docente è fossilizzata su quanto appreso decenni fa. Le stesse lezioni, gli stessi appunti ingialliti, le stesse battute che non facevano ridere neanche negli anni ’90. Lo stipendio, d’altronde, arriva lo stesso, che ci si aggiorni o meno.
La scuola-museo: un viaggio nel tempo
Entrare in questo mondo è come fare un viaggio nel tempo. In un passato ottocentesco dove il sapere scende dall’alto, dove l’innovazione è vista con sospetto, dove il digitale è tollerato solo se confinato in un’aula informatica spesso desolata e con computer di tre generazioni fa.
In questa scuola-museo, l’insegnante recita a memoria le nozioni apprese all’università trent’anni prima, mentre gli studenti, nativi digitali immersi in un mondo iperconnesso, si annoiano mortalmente. E poi ci sorprendiamo degli abbandoni scolastici, dei risultati deludenti nei test internazionali, della fuga dei cervelli.
L’Italia è il paese più arretrato d’Europa secondo i dati ISTAT per quanto riguarda la percentuale di laureati. E quei pochi che ottengono un titolo di studio avanzato spesso fanno le valigie per cercare fortuna altrove, dove il merito è riconosciuto e l’innovazione è la norma, non l’eccezione.
“Ma noi abbiamo la cultura umanistica”, è il mantra consolatorio che si ripete come un talismano contro il cambiamento, come se Dante, Petrarca e Manzoni fossero incompatibili con l’intelligenza artificiale. Come se studiare il passato giustificasse l’ignoranza del presente.
La verità è che la cultura umanistica, così come viene interpretata nel contesto educativo italiano, è diventata troppo spesso un alibi per l’immobilismo, un comodo rifugio dove nascondersi per evitare di confrontarsi con la complessità del mondo contemporaneo.
Una cultura umanistica autentica sarebbe quella che fornisce gli strumenti per interpretare il presente, per comprendere le implicazioni etiche, sociali e filosofiche delle nuove tecnologie. Invece, ciò che vediamo è una diffusa resistenza al cambiamento mascherata da difesa dei valori tradizionali.
Un insegnante non dovrebbe attendere passivamente che qualcuno gli spieghi come funziona il mondo; dovrebbe essere il primo a esplorarlo, a studiarlo, a comprenderlo.
In un’epoca in cui la conoscenza è accessibile come non mai, in cui tutorial, corsi online, comunità di pratica virtuali sono a portata di click, lamentarsi di “non aver ricevuto preparazione” suona come una confessione di pigrizia intellettuale, se non addirittura di inadeguatezza professionale.
L’insegnante dovrebbe essere un modello di apprendimento continuo, non un esempio di attendismo passivo. Dovrebbe dimostrare ai propri studenti che imparare è un processo attivo, autonomo, che dura tutta la vita. E proprio su questo dovrebbe essere valutato, dimostrando come ha ampliato le proprie competenze, come ha esplorato nuovi territori del sapere, come ha integrato le nuove tecnologie nella didattica.
Chi risulta incapace di imparare da solo, chi si limita a ripetere le stesse lezioni anno dopo anno, chi aspetta passivamente che qualcuno gli spieghi come funziona il mondo, forse dovrebbe riconsiderare la propria vocazione professionale.
Verso una nuova alleanza tra umanesimo e tecnologia
La sfida che attende la scuola italiana non è scegliere tra umanesimo e tecnologia, tra tradizione e innovazione, ma trovare una sintesi feconda tra questi poli apparentemente opposti.
Dove si conosce Platone e l’AI, si sa citare Leopardi e utilizzare l’intelligenza artificiale per personalizzare l’apprendimento, si trasmette il valore della tradizione e si preparano gli studenti per un futuro digitale: non è un’utopia, è semplicemente una scuola all’altezza dei tempi.
Una scuola dove gli insegnanti non aspettano che qualcuno spieghi loro come funziona l’intelligenza artificiale, ma la esplorano autonomamente, la interrogano criticamente, ne comprendono potenzialità e limiti. Una scuola dove la cultura umanistica non è un feticcio da conservare sotto vetro, ma uno strumento vivo per interpretare il presente e immaginare il futuro.
In questa scuola non c’è posto per quel 56% di insegnanti che “non ha ricevuto preparazione sull’uso dell’IA”. Meglio dimezzare il numero degli insegnanti e tenere solo quelli che comprendono come imparare sia una responsabilità personale, un imperativo professionale, un esempio da dare ai propri studenti. Oggi non servono più molti insegnanti: lezioni teoriche online, registrate dai migliori docenti o tenute da avatar sono più che sufficienti e molto efficaci, mentre meno insegnanti, ma di alto livello, sono importanti per gestire lezioni pratiche e case study.