Ogni fase del dibattito sull’intelligenza artificiale è accompagnata da un termine che catalizza l’attenzione. Oggi la parola d’ordine è “agentificazione”. Dopo l’epoca dei LLM e l’annuncio dei LRM, l’industria e i media parlano con crescente insistenza di AI agents: modelli che non si limitano a generare testi o immagini, ma promettono di agire in autonomia, pianificare sequenze di azioni, interagire con ambienti complessi. È davvero una rivoluzione, o piuttosto l’ennesimo mito tecnologico alimentato dall’hype?
Un agente, nella definizione più diffusa in informatica, è un sistema capace di percepire l’ambiente, elaborare informazioni, prendere decisioni e compiere azioni finalizzate a uno scopo. L’idea di “agentificare” i modelli linguistici significa dotarli di capacità operative aggiuntive: non solo generare risposte plausibili, ma orchestrare strumenti esterni, coordinare passaggi successivi, eseguire compiti complessi che richiedono più fasi interdipendenti.
Si tratta di una prospettiva affascinante, ma non del tutto nuova. Già negli anni Novanta, i manuali di AI proponevano architetture basate su percezione, pianificazione e azione. La differenza è che oggi i modelli
generativi forniscono un’interfaccia linguistica potente, che permette di collegare questi agenti a sistemi di calcolo, database, ambienti simulati e piattaforme operative. È l’integrazione tra linguaggio naturale e strumenti esterni a far sembrare più vicina l’autonomia.
La narrativa industriale è seducente: un collega digitale capace di redigere report, scrivere codice, organizzare agende, condurre ricerche, persino negoziare contratti. Una proiezione di automazione cognitiva totale, che intercetta sia le speranze di efficienza sia le paure di sostituzione nel lavoro. Le aziende parlano di “assistenti intelligenti” che si muoveranno in rete al nostro posto, mentre analisti e osservatori prefigurano un mercato miliardario di applicazioni agentificate.
Ma prima di credere al mito dell’autonomia, occorre chiedersi: quali sono le competenze effettive di questi sistemi? E soprattutto, dove finiscono le possibilità reali e dove inizia la retorica commerciale?
Tre sono i principali limiti che emergono dagli studi e dagli esperimenti finora condotti.
Affidabilità. Gli agenti basati su modelli generativi soffrono del problema delle “allucinazioni”: producono contenuti falsi ma plausibili. Quando la catena di azioni si allunga, questi errori possono accumularsi, compromettendo l’intero processo. L’affidabilità va quindi intesa come robustezza out-of-distribution: la capacità del sistema di mantenere performance anche al di fuori dei casi per cui è stato addestrato. Al momento, questa robustezza è fragile.
Controllo. Concedere maggiore autonomia significa ridurre la tracciabilità del comportamento. La difficoltà non è solo capire cosa ha prodotto il modello, ma anche come ha preso una decisione e perché ha intrapreso una certa sequenza di azioni. La mancanza di auditabilità rende complicato applicare criteri di responsabilità, soprattutto se l’agente interagisce con altri sistemi autonomi.
Comprensione. Per quanto vengano presentati come “ragionanti”, questi agenti non possiedono modelli del mondo né capacità di astrazione simbolica. Restano sistemi statistici che ottimizzano la plausibilità delle sequenze linguistiche. Il rischio è che falliscano in compiti che richiedono interpretazioni profonde, senso comune o conoscenze non incluse nei dati di addestramento.
Proprio perché questi limiti sono noti, la ricerca ha sviluppato alcune pratiche di mitigazione.
– Human-in-the-loop. Integrare l’intervento umano nelle catene decisionali più critiche, per validare i passaggi sensibili e prevenire errori catastrofici
– Soglie di autonomia. Definire parametri che limitano il raggio d’azione degli agenti, in modo che non possano compiere operazioni irreversibili senza autorizzazione.
– Logging e auditabilità. Registrare ogni passo compiuto dall’agente, così da poter ricostruire la sequenza di azioni e individuarne eventuali falle.
– Sandbox operative. Collocare gli agenti in ambienti controllati, dove possono sperimentare
senza rischi reali, prima di essere introdotti in contesti produttivi o sensibili.
Questi strumenti mostrano che non siamo di fronte a entità autonome nel senso forte, ma a sistemi che richiedono ancora una cornice di supervisione e di responsabilità umana.
Al di là della retorica, l’agentificazione ha comunque implicazioni tangibili. Nel lavoro, può ridurre tempi e costi di attività ripetitive: dalla gestione documentale alla ricerca bibliografica, dall’analisi finanziaria al supporto tecnico. Nella governance, solleva interrogativi su come attribuire la responsabilità delle decisioni prese in catene sempre più automatizzate.
Nella società, ridefinisce le modalità di interazione: se un agente risponde alle nostre mail, organizza i nostri viaggi o seleziona le nostre notizie, la nostra esperienza digitale diventa progressivamente mediata da intelligenze non pienamente trasparenti.
Non a caso, l’Unione Europea ha inserito la questione degli AI agents nel dibattito sull’AI Act, riconoscendo che i sistemi di uso generale (General Purpose AI) possono assumere forme agentificate. È un primo passo verso la consapevolezza che non si tratta solo di regolare i modelli, ma anche i contesti d’uso e i livelli di autonomia che si concedono.
La distinzione tra modello e agente diventa cruciale: un conto è addestrare un LLM, un altro è lasciargli prendere decisioni operative in catene autonome.
L’agentificazione non è né un’AGI nascosta né l’inizio di una coscienza artificiale. È un’evoluzione significativa, ma circoscritta, che porta con sé opportunità concrete e rischi strutturali. Il compito della riflessione critica non è negarne l’importanza, ma smontare l’illusione della discontinuità radicale. Per farlo servono due passaggi.
Primo: distinguere ciò che i sistemi fanno davvero da ciò che promettono di fare, con metriche e prove empiriche.
Secondo: integrare le pratiche di mitigazione, assicurando che la supervisione umana resti al centro. Solo così sarà possibile governare il fenomeno con lucidità, evitando sia l’entusiasmo cieco sia il rifiuto acritico.
L’agentificazione resterà al centro del dibattito per anni, in parte come innovazione reale, in parte come mito tecnologico. La differenza la farà la nostra capacità di discernere tra i due piani e di trasformare la promessa in strumenti di governo responsabili. Perché, come sempre accade nelle transizioni tecnologiche, ciò che conta non è l’annuncio della svolta, ma la costruzione di regole e pratiche che permettano di gestirla senza perdere di vista l’interesse collettivo.