Dalle fibre fungine ai bio-materiali intelligenti, DARPA (Defense Advanced Research Projects Agency), immagina strutture spaziali viventi che crescono nello spazio invece di essere costruite. La ricerca accademica sulla biofabbricazione in microgravità rafforza la visione: costruzioni organiche, auto-riparanti, sostenibili, capaci di rivoluzionare l’ingegneria extraterrestre e rendere possibile la colonizzazione spaziale a lungo termine.
Coltivare nello spazio: la visione DARPA
La DARPA (Defense Advanced Research Projects Agency) è l’agenzia del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti incaricata di sviluppare tecnologie innovative e ad alto rischio per garantire la supremazia tecnologica americana. Nota per la sua inclinazione visionaria e spesso dirompente, ha recentemente avanzato un’idea che appare al tempo stesso estrema e inevitabile: coltivare strutture spaziali anziché costruirle. Non più moduli rigidi assemblati sulla Terra e poi lanciati in orbita a costi esorbitanti, ma organismi strutturali cresciuti direttamente nello spazio, a partire da matrici biologiche.
Nella sua recente Request for Information, l’agenzia ha tracciato una linea precisa: sviluppare infrastrutture che superino i 500 metri di lunghezza, tra cui cavi per ascensori spaziali, reti orbitali per la cattura dei detriti e giganteschi interferometri per la scienza radioastronomica. Tutto questo non attraverso ingegneria convenzionale, ma grazie a materiali biologici capaci di crescere, adattarsi e funzionare integrati con elementi meccanici.
In questa visione, l’impalcatura non è più solo meccanica: è ibrida, dinamica, quasi organica.
I materiali viventi: tra funghi, muco e genetica adattiva
Per rendere reali queste costruzioni, DARPA guarda a materiali che appartengono a un’altra dimensione della materia: il vivente. In particolare, propone l’uso del micelio fungino, la struttura filamentosa e ramificata dei funghi, e delle fibre proteiche derivate dal muco delle missine, note per la loro resistenza eccezionale e l’elasticità.
Questi materiali, naturalmente leggeri, ma straordinariamente robusti, si prestano a diventare elementi strutturali se correttamente guidati e supportati. Come in una tenda, dove il tessuto biologico viene disteso su aste meccaniche, così le fibre fungine potrebbero combinarsi a supporti ingegneristici per dar vita a strutture leggere, flessibili e cresciute direttamente nello spazio.
L’obiettivo è chiaro: alleggerire la logistica spaziale, ridurre i costi di lancio, creare strutture adattabili. Il fascino profondo, tuttavia, e’ altrove: nel coltivare una nuova idea di architettura, non fatta di bulloni, ma di filamenti, membrane, processi metabolici.
I limiti biologici dell’ambiente spaziale
L’ambiente spaziale, però, non è amico della vita come la conosciamo. Temperatura, radiazione, umidità, assenza di pressione atmosferica: ogni variabile è un ostacolo per la crescita biologica. Coltivare funghi in orbita richiede molto di più che una capsula dotata di acqua e luce: servono condizioni controllate, alimentazione selettiva, sistemi di monitoraggio avanzati.
DARPA lo sa, e per questo ha posto domande precise. Come nutrire le estremità in crescita di queste strutture? Come mantenerle in forma e direzione, evitando che seguano impulsi di crescita erratici? Come farle sopravvivere nello spazio profondo?
Il problema è noto anche alla comunità scientifica. Ma proprio qui si inserisce l’interesse crescente verso la biofabbricazione, una disciplina che unisce biologia, ingegneria e stampa 3D per creare tessuti, strutture e materiali vivi o bioispirati, capaci di funzionare anche in condizioni estreme.
La biofabbricazione come risposta scientifica
Nel contesto dell’esplorazione spaziale, la biofabbricazione non è più una promessa ancora da mantenere, ma una realtà in fase di consolidamento. Come evidenziano Moroni et al. (2021) nel loro studio pubblicato su Future Generation Computer Systems, la convergenza tra microgravità e tecnologie di bioprinting apre scenari completamente nuovi per la medicina rigenerativa, per l’ingegneria dei materiali e per l’architettura extraterrestre.
Sulla Stazione Spaziale Internazionale, esperimenti pionieristici hanno dimostrato che è possibile stampare in 3D tessuti molli, organoidi e microstrutture vascolari con un grado di precisione inaspettato. L’assenza di peso, apparentemente ostile alla forma, si rivela invece una condizione favorevole per la creazione di geometrie complesse, per la distribuzione omogenea delle cellule, per la stabilità dei bioink in sospensione.
Particolarmente promettenti sono gli organoidi, piccole entità tridimensionali composte da cellule staminali, capaci di autorganizzarsi secondo schemi fisiologici. In orbita, questi tessuti semplificati possono agire come sentinelle biologiche, sensibili alle radiazioni cosmiche, ai mutamenti gravitazionali, ai ritmi accelerati dell’invecchiamento cellulare (Moroni et al., 2021). Strumenti preziosi non solo per la ricerca medica, ma per l’adattamento stesso del corpo umano a un nuovo habitat.
Stampare tessuti nello spazio significa, dunque, più che replicare l’organico, ripensare i confini tra struttura e vita, tra costruzione e crescita. E se si riuscirà a farlo in condizioni di microgravità, allora sarà possibile anche costruire ciò che serve per vivere, per guarire, per rigenerarsi — direttamente dove serve, quando serve, con ciò che si ha.
In questo scenario, i materiali suggeriti da DARPA — micelio fungino, proteine fibrose, biopolimeri — non sono visioni ardite, ma strumenti plausibili, adattabili, viventi. In un futuro prossimo, non saranno più solo i muscoli a rispondere all’ambiente, saranno anche le strutture, i supporti, gli involucri stessi a comportarsi come parte attiva del sistema vitale.
Dalla sperimentazione terrestre alle applicazioni orbitali
Le implicazioni potrebbero divenire enormi. Una struttura cresciuta nello spazio potrebbe autoripararsi, adattarsi alle variazioni ambientali, rinnovarsi nel tempo. Potrebbe diventare habitat, ponte, cavo, traliccio. Potrebbe rispondere a stimoli biochimici o meccanici. E, soprattutto, non dovrebbe essere lanciata dalla Terra.
Tutto ciò impone, però, una nuova ingegneria del vivente. Secondo Moroni et al. (2021), occorre ripensare completamente la progettazione: non più modelli rigidi, ma sistemi che crescono, mutano, si evolvono. E questo implica anche nuove domande etiche, su come guidare, limitare o incentivare la crescita di materiali semi-vivi nello spazio.
DARPA, con la sua storia di idee anticipatrici — come il programma Blackjack o la propulsione nucleare DRACO — spinge ancora una volta in avanti il confine, cercando di unire le forze dell’evoluzione biologica e dell’ingegno umano.
Un’architettura viva: l’autosufficienza come obiettivo
L’obiettivo finale è chiaro: non solo ridurre i costi di lancio o semplificare le missioni, ma rendere l’uomo autosufficiente nello spazio. Non più dipendente da carichi terrestri, ma capace di fabbricare in orbita ciò che serve, come serve, con ciò che ha a disposizione.
In questo scenario, il Refabricator della NASA — già operativo sulla Stazione Spaziale — rappresenta un primo passo concreto. Ricicla plastica a bordo e la trasforma in nuovo filamento stampabile. Una piccola fabbrica automatizzata, che chiude il cerchio dei rifiuti e rende ogni missione più resiliente. Il prossimo passo sarà farlo con la biologia.
L’integrazione tra biofabbricazione, stampa 3D e materiali viventi apre un futuro in cui ogni colonia spaziale potrà generare autonomamente le proprie infrastrutture. Con filamenti fungini o bio-polimeri adattivi, si potrà immaginare un insediamento che cresce, si espande, si autoripara.
Conclusione
L’idea che una struttura orbitale possa crescere come una pianta o un tessuto è oggi meno assurda di quanto fosse pochi anni fa. Grazie a DARPA, alla NASA e alla comunità scientifica internazionale, stiamo imparando che la biologia può essere una risorsa ingegneristica, non solo un oggetto di studio. Coltivare nel vuoto, stampare ciò che prima si forgiava, costruire con la vita: è questa la nuova frontiera.Un giorno, non troppo lontano, potremmo davvero vedere un ascensore spaziale crescere silenziosamente lungo una linea d’orbita, sospinto non da motori, ma da fibre vive. E quando accadrà, sapremo che l’uomo ha portato con sé, nello spazio, non solo le sue macchine, ma anche la sua intelligenza biologica.