Un dazio calcolato sul contenuto di semiconduttori minaccia di ridisegnare le catene globali del valore. L’obiettivo: riportare la manifattura high-tech in America. Il rischio: alimentare l’inflazione e incrinare gli equilibri geopolitici.
Non è un dazio come gli altri. L’amministrazione Trump sta valutando un piano che, se confermato, potrebbe ribaltare le logiche del commercio globale: imporre tariffe sui dispositivi elettronici importati in base al numero e al valore dei chip contenuti al loro interno. Un meccanismo inedito, pensato non per colpire un prodotto finito, ma per aggredire la componente più preziosa e strategica dell’era digitale: i semiconduttori.
Dietro questa scelta c’è una visione che intreccia economia, politica e sicurezza nazionale. La Casa Bianca considera i chip non più come semplici componenti industriali, ma come l’infrastruttura invisibile da cui dipendono tanto la potenza militare quanto la competitività economica americana. Colpirli con dazi mirati significa costringere le multinazionali a rivedere le proprie catene di fornitura e, potenzialmente, a riportare la produzione sul suolo statunitense.
Ma la stessa radicalità che rende l’idea affascinante agli occhi di Trump rischia di tradursi in una mina vagante per consumatori e mercati.
Il reshoring come nuova dottrina industriale
“L’America non può essere dipendente da forniture estere per i semiconduttori, fondamentali per la nostra sicurezza nazionale ed economica”, ha dichiarato Kush Desai, portavoce della Casa Bianca. È una dichiarazione che incarna la dottrina industriale trumpiana: ridurre la vulnerabilità, rafforzare la sovranità tecnologica, riportare le fabbriche negli Stati Uniti.
Il reshoring non è un concetto nuovo, ma sotto Trump assume un significato più radicale. Non si tratta solo di difendere posti di lavoro: è la convinzione che la supremazia geopolitica passi dalla capacità di controllare i nodi strategici della produzione globale. In questo schema, Taiwan Semiconductor Manufacturing Company (TSMC) e Samsung Electronics diventano attori centrali, e quindi vulnerabili, delle nuove pressioni americane.
Ma ricostruire in casa un’industria complessa come quella dei semiconduttori richiede anni, infrastrutture, capitali immensi e un ecosistema di fornitori che non si può improvvisare. È qui che il discorso politico rischia di scollarsi dalla realtà industriale.
L’effetto inflattivo e il boomerang per i consumatori
Se il piano dovesse diventare realtà, gli effetti non tarderebbero a farsi sentire: dagli spazzolini elettrici ai laptop, fino alle automobili e ai dispositivi medici, tutto ciò che contiene chip diventerebbe più caro.
L’economista Michael Strain, dell’American Enterprise Institute, ha avvertito: “L’inflazione negli Stati Uniti è già sopra il target del 2% della Federal Reserve. Una misura simile rischia di alimentare ulteriormente la spirale dei prezzi”. Non solo: anche i prodotti assemblati in America subirebbero rincari, perché i componenti importati resterebbero soggetti ai nuovi dazi.
È il paradosso del protezionismo: una politica pensata per rafforzare l’industria nazionale che, nel breve termine, finisce per gravare sui consumatori interni. La promessa elettorale di riportare la manifattura “a casa” rischia di trasformarsi in una tassa occulta sulla vita quotidiana delle famiglie americane.
Una guerra commerciale che non conosce tregua
Il progetto sui chip si inserisce in una strategia tariffaria più ampia, che nelle ultime settimane ha visto Trump annunciare dazi del 100% sui farmaci di marca e del 25% sui camion pesanti. È la prosecuzione di una guerra commerciale che non conosce pause: dalle acciaierie all’agricoltura, dalle medicine ai semiconduttori, il messaggio è chiaro: Washington non intende arretrare nella sua offensiva protezionista.
Questa volta, però, la posta in gioco è più alta. Colpire i semiconduttori significa intaccare il cuore dell’economia globale, la materia prima invisibile che rende possibili computer, smartphone, auto elettriche, sistemi di difesa e intelligenza artificiale. Un settore che non appartiene più solo all’economia, ma alla geopolitica pura.
Il rebus delle esenzioni e la pressione sulle multinazionali
Sul tavolo ci sarebbero ipotesi di esenzione parziale per i macchinari destinati alla produzione di chip negli Stati Uniti, nel tentativo di non frenare gli investimenti locali. Ma la Casa Bianca avrebbe mostrato diffidenza: Trump ha sempre manifestato ostilità verso deroghe che rischiano di indebolire il messaggio politico del protezionismo.
Un’altra opzione riguarda un meccanismo di “credito” per le aziende che spostino metà della produzione negli Stati Uniti, ottenendo così uno sconto sui dazi. Ma la praticabilità resta dubbia. Costruire impianti per semiconduttori richiede oltre cinque anni e miliardi di dollari: un orizzonte incompatibile con i tempi politici di un’amministrazione che cerca risultati rapidi e visibili.
Le grandi multinazionali, da TSMC a Samsung, si ritrovano strette tra due fuochi: da un lato la prospettiva di tariffe punitive, dall’altro gli incentivi del CHIPS Act, che offre miliardi di dollari per costruire fabbriche in territorio americano. Una pressione che più che economica appare geopolitica.
Oltre i dazi: una battaglia per l’egemonia tecnologica
Guardando oltre le immediate conseguenze economiche, il piano Trump rivela la traiettoria di una trasformazione più ampia: la tecnologia è ormai il campo di battaglia della nuova competizione globale.
La logica è chiara: chi controlla i semiconduttori controlla la capacità di innovare, di difendersi e di guidare le economie del futuro. Per Washington, ridurre la dipendenza dall’Asia non è più solo una questione industriale, ma una condizione per restare potenza leader nel XXI secolo.
Ma a ogni mossa americana corrisponderanno inevitabili contromosse. L’Europa, il Giappone, la Corea del Sud e soprattutto la Cina non resteranno a guardare. L’esito potrebbe essere una frammentazione irreversibile della catena di fornitura globale, con un mondo sempre più diviso in blocchi tecnologici contrapposti.
La promessa e il paradosso
Il dazio sui chip, se attuato, sarà ricordato non come una misura commerciale, ma come un manifesto politico: il simbolo di un’America disposta a pagare un prezzo interno pur di riaffermare la sua autonomia tecnologica.
Ma resta il paradosso: nel tentativo di costruire un futuro più sicuro, l’amministrazione Trump rischia di rendere il presente più instabile e costoso. La promessa di indipendenza potrebbe trasformarsi in una nuova forma di vulnerabilità, con famiglie americane gravate da prezzi più alti e un sistema internazionale ancora più frammentato.
In gioco non c’è solo il costo di un laptop o di uno smartphone, ma la definizione stessa di potere nel XXI secolo. Se i chip sono il nuovo petrolio, allora i dazi di Trump non sono semplici tasse: sono l’apertura di una lunga, incerta e potenzialmente pericolosa guerra per l’egemonia tecnologica globale.