È un Trump al quadrato quello che abbiamo visto, supportato da un vicepresidente altrettanto determinato, perfettamente consapevoli l’uno e l’altro della dimensione immediatamente globale dello scontro.
Melii: “Pure, la presente riunione è stata indetta per discutere della nostra salvezza, e la discussione si svolga, se vi piace, nel modo in cui ci invitate a discutere”.
Ateniesi: “Noi dunque non vi offriremo una non persuasiva lungaggine di parole con l’aiuto di belle frasi, cioè che il nostro impero è giusto perché abbiamo abbattuto i Medi o che ora perseguiamo il nostro diritto perché siamo stati offesi; ma ugualmente pretendiamo che neppur voi crediate di persuaderci dicendoci che, per quanto coloni dei Lacedemoni, non vi siete uniti a loro per farci guerra o che nonci avete fatto alcun torto.
Pretendiamo invece che si mandi ad effetto ciò che è possibile a seconda della reale convinzione che ha ciascuno di noi, ché noi siamo certi, di fronte a voi, persone informate, che nelle considerazioni umane il diritto è riconosciuto in seguito a una uguale necessità per le due parti, mentre chi è più forte fa quello che può e chi è più debole cede”.
(Tucidide, La guerra del Peloponneso, Milano, Rizzoli, 1985, vol. II, libro V, §§ 88/89, p. 935)
E’ opinione comune che viviamo in una società in cui si vede tutto. È finito il tempo delle iconostasi, quelle pareti che nelle chiese ortodosse separano lo spazio dei fedeli da quello a cui possono accedere solo i religiosi.
La scena che abbiamo visto nella Sala Ovale della Casa Bianca tra il Presidente USA Trump e quello dell’Ucraina Zelensky coincide con sé stessa e non ha un retro invisibile. Se anche lo avesse avuto lo ha reso del tutto inutile.
Doveva essere una conferenza-stampa che nel rituale della politica rappresenta il momento in cui i leader, che si sono prima incontrati in separata sede, si offrono alle domande dei giornalisti per dare il loro punto di vista e offrire una sintesi dell’incontro. E invece i piani, che secondo una secolare convenzione dovevano essere distinti, si sono toccati e il confronto è andato in diretta.
È caduta così ogni differenza fra quello che viene detto senza reticenze nel segreto delle stanze e quello che invece viene riferito alla stampa e comunque comunicato con tutte le cautele e il senso dell’opportunità. Non solo il talk-show ha prevalso ma ha fatto tutt’uno con il confronto politico.
Trump e il suo altrettanto agguerrito vice J.D. Vance hanno inscenato un faccia a faccia con l’ospite dandosi sulla voce e rimpallandosi le battute esattamente come accade nel più chiassoso e litigioso di quel genere che in televisione pensavamo usurato – il talkshow, appunto – e che invece ha risucchiato la realtà stessa della politica.
Nessuna circonlocuzione, nessuna prudenza, Trump è andato dritto secondo un costume che lo ha sempre portato a un discorso diretto, senza convenevoli, irridente con gli avversari, facile alla battuta a effetto e soprattutto a suo agio quando il contenzioso si inasprisce. Allo stesso modo in cui si conduce una trattativa economica, senza peli sulla lingua e mirando al sodo. E magari bleffando sul bordo indefinito tra finzione e realtà.
Le sue parole esplicite ricordano quelle con cui gli Ateniesi si rivolsero agli ambasciatori dei Melii. Venuti a trattare, si trovarono di fronte alla parola del più forte che dice brutalmente come stanno le cose e non ha bisogno di veli e di privé.
Nella Sala Ovale sono dunque svaniti gli arcana imperii e dovremmo riflettere su cosa stia diventando e come si stia manifestando un potere che non ha più bisogno del silenzio e dell’invisibilità che ne hanno per secoli fondato il fascino e l’autorità.
Il discorso della politica è diventato infatti quello del potere che deliberatamente si esibisce davanti alle telecamere e dunque si rivolge al pubblico più largo, a conferma che la politica e la più diretta delle comunicazioni sono ormai la stessa cosa.
Trump si è rivolto agli spettatori, agli Americani in primo luogo, con una durezza e un’assertività brutale che non possono che nascere dalla convinzione della propria forza e ha chiuso un cerchio senza remore tra potere, popolo e parola.
Lo dobbiamo considerare la figura di un laboratorio del discorso della politica o di una politica diventata discorso? La storia si è sempre svolta all’ombra del diritto del più forte, non è una novità, quello che colpisce è la pubblica ostensione di un corpo del potere che si afferma come tale, esplicitamente, nel confronto con un altro, debole, ancorché orgoglioso e non disponibile ad assoggettarsi.
Semmai è da chiedersi se e quanto questa strategia discorsiva della politica possa pagare, anche se ha dietro di sé la forza economica e militare di una potenza come gli Stati Uniti d’America. Niccolò Machiavelli consigliava al Principe di usare con sapienza e a seconda dei casi e del contesto “la golpe” e “il lione”: qui siamo davanti ad un uso estremizzato dell’aggressività leonina che si guarda bene dal denunciare una qualsivoglia duttilità. E allora viene anche da domandarsi quanto e quale spazio questo volto da pistolero-dominus possa avere quando si troverà davanti competitors ben più attrezzati del volenteroso Presidente dell’Ucraina, che si tratti dell’ex agente del KGB Putin o dell’imperturbabile Presidente della Repubblica Popolare Cinese. Difficile pensare che accettino di esibirsi davanti alle telecamere offrendosi alla sicumera proterva di Donald. Difficile che accettino il gioco nel quale si dimostra maestro, il confronto diretto in pubblico.
Ha usato una metafora significativa Trump, le carte, il gioco a cui si partecipa solo se appunto si hanno le carte per vincere, rinfacciando quindi al dirimpettaio di non averle e rimproverandolo per un altro gioco, con “le vite di milioni di persone” e con “la terza guerra mondiale”.
È un Trump al quadrato quello che abbiamo visto, supportato da un vicepresidente altrettanto determinato, perfettamente consapevoli l’uno e l’altro della dimensione immediatamente globale dello scontro. Mai visto, tra l’altro un vicepresidente così presente in un incontro pubblico del Presidente con il rappresentante di un altro Paese, ciò che delinea un’articolazione dell’attuale gerarchia del potere, a cui per essere completa manca solo la terza gamba di Elon Musk.
Il linguaggio che i due hanno usato non è un eccesso, è il punto di arrivo di un’idea della politica che rifiuta le mediazioni e dunque quello che Socrate chiamava il dialeghesthai, il dare-e-ricevere-ragione contro la retorica dei sofisti che alla verità preferiva la persuasione e l’effetto.
Dobbiamo prenderne atto, la politica sta diventando la sua immediatezza e per questo non ha più bisogno della discussione, della trattativa, del confronto che produce un accordo rispettoso delle parti.
Ricordo, e non per caso, l’incontro con il segretario del PD Bersani che i Cinque Stelle vollero in diretta televisiva. Era già il segno di una novità, in quel caso sostenuta da un’idea ingenuamente o se si vuole demagogicamente diretta della democrazia.
Trump è già oltre, non ha una casta al potere con cui polemizzare, ha vinto le elezioni e questo gli basta per delegittimare i presidenti che sono venuti prima di lui e riabilitare gli eroi di Capitol Hill. Le istituzioni e lui sono la stessa cosa, semmai il riferimento è sempre alla country e all’America. Dunque, o si è d’accordo o si è contro, perché lui è l’America. È la chiave del suo populismo iper-mediatico.
Zelensky per molti commentatori è stato una vittima, in balìa del bullo Donald e cacciato via dalla Casa Bianca senza tanti complimenti. È questa è l’impressione. E però, riguardando, ci si accorge che il presidente ucraino ribatte ai rilievi e alle accuse, rivendica la condizione del suo paese in guerra, dà perfino sulla voce a Trump che a un certo punto lo zittisce per continuare nel suo discorso.
In un certo modo, al di là della sproporzione delle parti, una forma di resistenza alla doppia contestazione che lo investiva da parte di J.D. e Donald.
Che non sia riflesso condizionato di un europeo e di una tradizione politica di fronte alla natura-show degli Americani? Una sorta di resistenza ancorché da una figura ambigua, come può esserlo un attore che è arrivato al vertice del suo Paese e che ha interpretato una serie tv in cui questo accadeva?
Purtroppo per lui si è trovato di fronte a un impareggiabile protagonista, capace di monopolizzare come pochi il palcoscenico. E forse ha dovuto pagare anche questo limite. Una parola che il suo Antagonista non conosce.
Il match si è svolto nella Sala Ovale, davanti a un caminetto che è stato lo sfondo delle storiche fireside chats, le conversazioni informali con cui il presidente Roosevelt si rivolgeva agli americani negli anni del New Deal.
Ebbene, davanti a quel caminetto è stato sancito il feroce tempo pieno del potere e della sua forza “pornografica”.