Dalla mela “green” al greenwashing: l’Apple Watch non è CO₂-neutrale

| 26/08/2025
Dalla mela “green” al greenwashing: l’Apple Watch non è CO₂-neutrale

Il tribunale di Francoforte vieta ad Apple di pubblicizzare il suo smartwatch come “carbon neutral”. Contratti fragili, foreste a tempo e accuse di greenwashing aprono una nuova stagione di controlli sulle promesse ambientali delle big tech.

Una sentenza che va oltre il marketing

Il recente verdetto del tribunale regionale di Francoforte, che vieta ad Apple di pubblicizzare l’Apple Watch come “CO₂-neutrale”, ha il sapore di un turning point nel rapporto tra giustizia, sostenibilità e corporate governance. Non si tratta soltanto di un pronunciamento contro una campagna pubblicitaria, ma di un messaggio preciso alle multinazionali: in Europa non basta più evocare la sostenibilità con slogan accattivanti, serve dimostrarla con fatti, contratti solidi e garanzie misurabili. Il divieto, accompagnato dalla possibilità di sanzioni fino a 250.000 euro per ogni violazione, ridisegna il confine tra comunicazione e responsabilità legale, aprendo un precedente che potrebbe valere per l’intero settore tecnologico e oltre.

Neutralità climatica a tempo: il nodo delle foreste in Paraguay

Al cuore della vicenda c’è il progetto forestale di Apple in Paraguay, basato su piantagioni di eucalipto. L’azienda di Cupertino lo aveva presentato come pilastro della compensazione delle emissioni generate dalla produzione dell’Apple Watch. Tuttavia, i giudici hanno sottolineato che il 75% dei contratti di leasing dei terreni scade entro il 2029, senza garanzie di rinnovo. Questo dettaglio tecnico, apparentemente marginale, ha demolito l’intera architettura narrativa della neutralità climatica di Apple. Una neutralità che, per definizione, dovrebbe avere prospettive pluridecennali, non orizzonti a breve termine legati a clausole contrattuali revocabili. Il problema si estende oltre Apple: gran parte dei progetti di offsetting soffre dello stesso difetto strutturale, legato alla precarietà legale e alla fragilità ecologica delle monoculture.

Deutsche Umwelthilfe e la guerra al greenwashing

La causa è stata avviata da Deutsche Umwelthilfe (DUH), una delle ONG ambientaliste più attive in Germania. Per l’associazione, la decisione del tribunale è una vittoria simbolica contro il cosiddetto greenwashing, ovvero l’uso improprio di claims ambientali a fini di marketing. Juergen Resch, leader della DUH, ha sottolineato che la presunta capacità di stoccaggio del carbonio nelle piantagioni di eucalipto è limitata a pochi anni e che l’integrità ecologica di aree monoculturali non può essere paragonata a quella di foreste naturali. Questo punto si lega a una critica più ampia: la transizione ecologica non può ridursi a un gioco di bilancio contabile delle emissioni, ma richiede un impegno sistemico e di lungo periodo, capace di integrare biodiversità, comunità locali e resilienza climatica.

Un precedente giuridico in linea con l’evoluzione normativa europea

La sentenza tedesca si inserisce in una traiettoria più ampia che sta ridisegnando il quadro giuridico europeo in materia di comunicazione ambientale. La Green Claims Directive, ancora in discussione a Bruxelles, mira a imporre standard rigorosi e verifiche indipendenti su qualsiasi dichiarazione di neutralità climatica. Già oggi, i tribunali nazionali anticipano quello spirito, affermando che la neutralità non può essere proclamata senza basi verificabili e contratti garantiti nel lungo termine. Per le aziende globali, ciò implica una rivoluzione: le campagne pubblicitarie dovranno essere accompagnate da audit esterni, dati certificati e narrative meno “emozionali” e più tecniche. La Germania, ancora una volta, si conferma laboratorio normativo avanzato, in grado di influenzare l’intero mercato europeo.

Il dilemma delle multinazionali: responsabilità o disincentivo?

Apple ha scelto di non commentare ufficialmente la sentenza, lasciando intendere che potrebbe ricorrere in appello. La vicenda solleva però un dilemma complesso: come conciliare la necessità di scoraggiare il greenwashing con l’esigenza di non disincentivare le aziende dall’investire in progetti di decarbonizzazione? Se ogni iniziativa viene contestata e demolita, il rischio è che le corporation si limitino al “minimum compliance”, rinunciando a sperimentare soluzioni innovative. È qui che si gioca il futuro delle politiche ambientali: nella capacità dei legislatori e dei giudici di distinguere tra abusi di marketing e tentativi seri, anche se imperfetti, di ridurre l’impatto ambientale. La sentenza contro Apple diventa quindi un banco di prova per ridefinire il perimetro di ciò che può essere definito responsabilità d’impresa.

Impatti economici e strategici per Apple e l’industria tech

Per Apple, la decisione non è solo un inciampo reputazionale, ma una sfida strategica. L’Apple Watch rappresenta un prodotto simbolico, non soltanto in termini di vendite, ma come vetrina di innovazione e impegno ESG. Il divieto in Germania obbligherà l’azienda a ripensare la sua comunicazione ambientale a livello europeo e forse globale, con ricadute sui costi di marketing, sulla percezione del brand e sulla fedeltà dei consumatori. Più in generale, il caso mette in discussione l’intero modello con cui le big tech hanno finora gestito i propri programmi di compensazione: progetti lontani, spesso in Paesi emergenti, difficili da monitorare e vulnerabili sul piano legale. Il messaggio del tribunale è chiaro: il futuro della sostenibilità industriale richiederà riduzioni dirette delle emissioni nella produzione, non scorciatoie affidate a contratti precari.

La sostenibilità come infrastruttura, non come slogan

La sentenza di Francoforte va oltre l’Apple Watch e riguarda l’intero rapporto tra imprese, società e ambiente. In un’epoca in cui la sostenibilità è divenuta fattore competitivo, reputazionale e politico, la differenza non la farà più la retorica ma la sostanza: investimenti in supply chain decarbonizzate, materiali circolari, energie rinnovabili integrate nei processi produttivi. In altre parole, la sostenibilità deve diventare infrastruttura industriale, non claim pubblicitario. Per Apple e per tutte le multinazionali globali, la lezione è netta: il green non si racconta, si dimostra.

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