COP30 a Belém: nella bozza Onu scompare il riferimento a un nuovo accordo per l’uscita dai combustibili fossili, nonostante la spinta di oltre 80 Paesi.
Alla conferenza sul clima COP30 in Brasile, l’ultima bozza di accordo ha cancellato ogni opzione su una roadmap per abbandonare petrolio, gas e carbone, richiesta da un’ampia coalizione di Stati. Dietro le righe del testo, si consuma lo scontro tra Paesi vulnerabili alla crisi climatica, produttori di idrocarburi e grandi economie che temono i costi di una vera transizione.
Da Dubai a Belém: la promessa che rischia di svuotarsi
Per capire cosa sta succedendo a COP30, in corso a Belém, nel cuore dell’Amazzonia brasiliana, bisogna tornare a Dubai, COP28, due anni fa. Lì, dopo negoziati estenuanti, quasi 200 Paesi avevano accettato una formula storica: “transitioning away from fossil fuels”, avviare una transizione dai combustibili fossili nei sistemi energetici, in modo “giusto, ordinato ed equo” entro il 2050.
Era, già allora, un compromesso delicato: nessun “phase-out” netto e chiaro, ma almeno un riconoscimento politico del problema. Una frase che conteneva più aspettative che obblighi, ma che molti governi, soprattutto quelli più esposti agli impatti climatici, hanno preso sul serio.
Da allora, però, la promessa si è arenata. A COP29 non si è riusciti a trasformare quella formula in azioni concrete. E ora, a Belém, dovrebbe essere la conferenza dell’“implementazione”, la “COP della verità”, come l’ha ribattezzata il presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva: o si definisce una strada, o lo slancio di Dubai rischia di evaporare.
È in questo contesto che la scomparsa, dall’ultima bozza, di qualsiasi riferimento a un nuovo accordo operativo sulla transizione dai fossili non è un dettaglio tecnico, ma un segnale politico.
Cosa dice la nuova bozza: l’assenza che pesa più di mille parole
La nuova bozza di decisione circolata dalle Nazioni Unite ha cancellato l’intera sezione che, nelle versioni precedenti, presentava diverse opzioni di linguaggio su come concordare una roadmap per “allontanarsi” dai combustibili fossili.
In pratica, le formulazioni alternative su un possibile piano condiviso non sono state semplicemente annacquate, sono state tolte dal tavolo. Del tutto.
Restano riferimenti generici all’azione climatica e agli obiettivi di lungo termine, ma la questione più esplosiva – il “come” e il “quando” ridurre la dipendenza da petrolio, gas e carbone – viene spostata di lato.
È un’assenza che si sente subito: in un negoziato multilaterale, ciò che non viene scritto è spesso tanto importante quanto ciò che appare nero su bianco. E qui l’omissione dice che, al momento, non c’è consenso nemmeno per riconoscere che serve una tabella di marcia, figuriamoci concordare tempi e numeri.
La bozza, va ricordato, non è definitiva. Dovrà comunque essere approvata per consenso dai Paesi presenti a COP30 e può ancora cambiare, anche in modo significativo, nelle ultime ore di trattativa. Ma l’orientamento che esprime, soprattutto in un testo diffuso così a ridosso della chiusura, è un termometro dello stato reale dei rapporti di forza.
Il fronte della roadmap: oltre 80 Paesi che non vogliono tornare indietro
Il paradosso è che la rimozione del linguaggio sui fossili arriva proprio mentre un’ampia coalizione di oltre 80 Paesi, dall’Europa a diversi Stati africani, latinoamericani e del Pacifico, ha chiesto, con forza, che la roadmap per l’uscita dai combustibili fossili sia uno dei risultati centrali di COP30.
Questo fronte “pro-roadmap” tiene insieme:
- piccoli Stati insulari che rischiano letteralmente di scomparire con l’innalzamento del mare
- Paesi del Sud globale che sperimentano già oggi gli impatti di siccità, alluvioni e ondate di calore
- l’Unione Europea e il Regno Unito, alla ricerca di una narrativa di leadership climatica, pur tra mille contraddizioni interne.
Per loro, la roadmap non è solo un gesto simbolico, ma una richiesta minima di coerenza: se a Dubai si è scritto che il mondo deve “transition away from fossil fuels”, ora bisogna spiegare come e con quali tappe intermedie.
Le capitali più esposte alla crisi climatica temono che, senza un percorso formalizzato, la formula di Dubai resti un esercizio retorico. L’idea della roadmap è esattamente questo: trasformare un principio condiviso in una sequenza di passi verificabili, con controlli periodici e responsabilità politiche chiare.
I blocchi: petrostati, grandi produttori e il ritorno della geopolitica dei fossili
Dall’altra parte del tavolo ci sono i Paesi che vedono nella transizione una minaccia diretta al loro modello economico e al loro peso geopolitico. Alcuni grandi produttori di idrocarburi, in primis importanti petrostati mediorientali, hanno osteggiato, già a Dubai, qualunque riferimento a un “phase-out” esplicito, lavorando sistematicamente per indebolire il linguaggio sulle fonti fossili.
A complicare ulteriormente la dinamica, a COP30 pesa anche l’assenza degli Stati Uniti come motore negoziale: Washington ha invertito la rotta sul clima dopo il ritorno alla Casa Bianca di Donald Trump, allineandosi su posizioni più vicine ad altri produttori di petrolio restii a legarsi le mani con nuovi obblighi multilaterali.
Risultato:
- la coalizione favorevole a una roadmap ha la forza dei numeri, ma non controlla le leve del veto
- i Paesi che temono di perdere il “rendimento” dei loro giacimenti di petrolio e gas usano la richiesta di consenso unanime come scudo politico.
In mezzo, un gruppo di grandi economie emergenti gioca una partita più sfumata, cercando di proteggere lo spazio per il proprio sviluppo industriale, ma senza apparire apertamente come i “cattivi” del negoziato. Molti accettano il linguaggio sulla transizione, ma vogliono che resti vago, senza scadenze rigide.
Il sottotesto economico: finanza, adattamento e il prezzo politico del carbone
Dietro ogni frase cancellata su petrolio e gas, si intravede un altro conflitto: chi paga per la transizione.
Da anni i Paesi in via di sviluppo ricordano che le promesse di finanza climatica fatte dal Nord globale sono state, nella migliore delle ipotesi, parzialmente mantenute. A Belém, il dibattito sulla roadmap fossile si intreccia con quello sulle risorse per adattamento e mitigazione: senza soldi certi, molti governi del Sud globale non possono permettersi di smantellare centrali a carbone o rinunciare ai proventi del petrolio.
Per questo alcuni negoziatori presentano la questione in modo brutale, ma onesto: se volete che smettiamo di estrarre e bruciare, dovete aiutarci a finanziare l’alternativa.
Non a caso, il segretario generale dell’ONU António Guterres ha insistito a COP30 sul doppio binario: accelerare la transizione dai fossili e, allo stesso tempo, aumentare in modo significativo i flussi finanziari per il clima, soprattutto verso i Paesi più vulnerabili.
La cancellazione della roadmap dalla bozza non è quindi solo un tema tecnico di linguaggio. È un segnale che la partita su chi sostiene il costo economico della transizione è ancora lontana dall’essere risolta.
Dentro la COP30: incendi veri, incendi metaforici
Come se non bastassero le tensioni negoziali, COP30 è stata letteralmente scossa da un incendio nel quartier generale del vertice, che ha costretto all’evacuazione migliaia di delegati e ha sospeso temporaneamente i lavori. Le autorità brasiliane parlano di un incidente legato a un guasto elettrico, rapidamente domato, ma il simbolismo è fin troppo evidente: mentre si discute di come “raffreddare” il pianeta, il summit prende fuoco, anche fisicamente.
Fuori dalle sale, intanto, il clima politico è tutt’altro che tiepido:
- manifestazioni di giovani e attivisti chiedono un “phase-out pieno, rapido e giusto” dei fossili
- le comunità indigene amazzoniche denunciano la contraddizione tra i proclami sul clima e la lentezza nel proteggere le foreste
- la società civile segnala l’influenza crescente delle lobby dei combustibili fossili e di altri settori ad alte emissioni presenti a Belém.
È in questo contesto, altamente politicizzato, che la scelta di togliere la roadmap dal testo non appare neutrale: è una risposta, implicita, alle pressioni che arrivano dall’esterno, ma anche un tentativo di raffreddare lo scontro prima del rush finale.
La posta in gioco: perché una roadmap sui fossili conta davvero
Qualcuno potrebbe obiettare: in fondo, un’altra dichiarazione Onu non cambia da sola la traiettoria delle emissioni. È vero. Ma il valore di una roadmap globale sta altrove.
Una roadmap formalmente approvata dai quasi 200 Paesi sotto l’ombrello dell’UNFCCC non è un piano operativo chiavi in mano, è però:
- un segnale regolatorio ai mercati, che influenza investimenti, assicurazioni, costo del capitale per progetti fossili
- una leva politica interna per quei governi che vogliono accelerare, ma devono fronteggiare resistenze domestiche
- un criterio di accountability: consente alla comunità internazionale di misurare chi si allinea al percorso concordato e chi lo ostacola.
La sua assenza, al contrario, lascia campo libero a narrazioni confliggenti:
- per alcuni, la transizione è ormai scontata e inevitabile
- per altri, il silenzio del testo su petrolio e gas è la prova che le fossili resteranno centrali ancora per decenni.
In mezzo, investitori, città, imprese devono prendere decisioni di lungo periodo senza una bussola condivisa.
Lula, l’Amazzonia e il rischio di una “COP della verità” senza verità
Il Brasile ha investito moltissimo nell’immagine di COP30: portare la conferenza nel cuore dell’Amazzonia doveva essere un gesto politico potente, capace di collegare la difesa delle foreste alla transizione energetica globale. Lula ha parlato di “COP della verità”, invitando i leader mondiali a smettere di rinviare le scelte difficili.
Finora, però, il bilancio provvisorio è più ambiguo:
- sul fronte delle foreste e della deforestazione, avanzano idee e meccanismi, ma con molta prudenza
- sulla finanza climatica, le promesse si moltiplicano, ma la diffidenza del Sud globale resta alta
- sulla questione dei fossili, la scelta di togliere la roadmap dalla bozza rischia di trasformare la “COP della verità” in una COP del non detto.
Se Belém dovesse chiudersi senza un mandato chiaro per sviluppare quella roadmap nei prossimi anni, la narrativa di un vertice “storico” diverrebbe molto difficile da sostenere. Per il Brasile, che ambisce a essere leader del Sud globale, sarebbe un’occasione mancata.
Scenari dopo Belém: compromesso minimo, rinvio elegante o scossone finale?
A poche ore dalla chiusura dei lavori, gli scenari restano aperti.
Tre, in particolare, sembrano plausibili:
- Compromesso minimale. Il riferimento alla roadmap resta fuori dal testo finale, sostituito da formule generiche sulla necessità di accelerare l’azione climatica. Una soluzione tecnicamente “accettabile” per tutti, ma politicamente povera
- Rientro soft della roadmap. Sotto la pressione di oltre 80 Paesi, della società civile e di figure come Guterres, una qualche menzione di un processo futuro per definire la roadmap rientra nel testo, magari affidata a un gruppo di lavoro o a una decisione da prendere alla prossima COP. Un rinvio ordinato, che salva la faccia, ma non risolve lo stallo.
- Scossone finale. Scenario meno probabile, ma non impossibile nei negoziati climatici: un fronte di Paesi vulnerabili, esasperato, rifiuta di approvare un testo ritenuto troppo debole e costringe la presidenza brasiliana a riaprire la partita sulla roadmap in extremis. Sarebbe un segnale di rottura, con conseguenze imprevedibili sul futuro del processo multilaterale.
In tutti i casi, la questione non sparirà. Se non verrà affrontata a Belém, tornerà, probabilmente in modo più acceso, alla prossima COP.
Una chiusura necessaria: smettere di litigare sulle parole e iniziare a litigare sui numeri
La vicenda della roadmap sui fossili, tolta e forse rinegoziata, racconta un fatto semplice: il mondo non discute più se la transizione energetica avverrà, ma chi la controllerà, chi ne pagherà il costo e chi ne trarrà beneficio.
Continuare a combattere sul lessico “phase-out” vs “transitioning away”, roadmap sì o no, è diventato un modo elegante per rimandare lo scontro sui numeri:
- quanti barili, quante tonnellate, quante centrali chiuse entro quale anno
- quante risorse trasferite, da chi a chi, con quali condizioni.
Finché questi numeri non entreranno davvero nei testi, ogni accordo resterà un compromesso parziale. Non inutile, ma insufficiente rispetto alla velocità con cui si muove la crisi climatica.
Se COP30 vuole davvero essere ricordata come la “COP della verità”, dovrà accettare un punto scomodo:
la verità non è in una formula più o meno brillante, ma nella capacità di trasformare quelle formule in vincoli reali.
Se, invece, la roadmap continuerà a vivere soltanto nei comunicati stampa e nelle dichiarazioni dei leader, mentre scompare dalle pagine ufficiali dell’accordo, allora il verdetto sarà duro ma giusto: non è stata la politica a domare i fossili. Sono stati i fossili, ancora una volta, a dettare il perimetro del possibile.
