Cinque anni di declino, vendite dimezzate e fiducia evaporata: la crisi immobiliare cinese si approfondisce e mette in discussione la tenuta del suo modello di sviluppo.
Mentre Pechino frena sugli stimoli e i compratori restano alla finestra, la seconda economia mondiale si confronta con la fine del ciclo di crescita che ha plasmato il suo miracolo economico.
Per oltre due decenni, il mattone è stato il simbolo della rinascita cinese.
Dalla fine degli anni Novanta, l’urbanizzazione accelerata, il credito facile e la speculazione controllata avevano trasformato intere province in distretti urbani.
Comprare casa significava molto più che investire: era un atto di fede nel futuro, nel partito e nel miracolo economico.
Oggi quel sogno si sta sgretolando.
Secondo S&P Global Ratings, le vendite di nuove abitazioni scenderanno nel 2025 di circa l’8% rispetto al 2024, attestandosi tra 8,8 e 9 trilioni di yuan (1,23–1,26 trilioni di dollari).
Un calo quasi triplo rispetto alle previsioni di inizio anno e un segnale inequivocabile: la fiducia dei cittadini — e quindi la linfa dell’intero sistema immobiliare — si è esaurita.
“Il sentimento dei compratori resta estremamente fragile,” ha dichiarato Edward Chan, direttore corporate ratings di S&P. “Il governo dovrà continuare a sostenere il settore per ricostruire la fiducia del mercato.”
Dietro questa frase apparentemente tecnica si nasconde una realtà più profonda: in Cina, la casa non è solo un bene, ma una promessa di stabilità sociale. Oggi quella promessa vacilla.
Cinque anni di declino e un mercato dimezzato
Il 2025 segna il quinto anno consecutivo di contrazione per il real estate cinese.
Dal picco di 18,2 trilioni di yuan di vendite nel 2021, il mercato si è dimezzato in meno di un quinquennio.
S&P prevede un’ulteriore flessione tra il 6% e il 7% nel 2026, accompagnata da una caduta dei prezzi delle abitazioni primarie compresa tra 1,5% e 2,5%.
Non è solo una crisi di settore: è un riassetto dell’intera architettura economica del Paese.
Per anni, il mattone ha funzionato come una leva di crescita artificiale.
Il credito facile alimentava gli sviluppatori; gli sviluppatori finanziavano le città; le città, a loro volta, sostenevano la spesa pubblica locale vendendo terreni a prezzi gonfiati.
Un circolo che ha garantito prosperità e occupazione, ma che oggi mostra i limiti di un modello fondato su debito, speculazione e aspettative illimitate.
Il risultato è un sistema in cui la crescita nominale è rimasta alta anche quando la produttività reale smetteva di salire. Ora che la leva del mattone si è inceppata, la Cina deve affrontare la realtà: la transizione da un’economia trainata dagli investimenti a una guidata dai consumi è più difficile — e più dolorosa — del previsto.
La crisi della fiducia: dal boom al trauma collettivo
Se c’è una parola che domina questa crisi, è fiducia.
Per oltre trent’anni, la narrativa dominante in Cina è stata che “i prezzi delle case non scendono mai”.
Ogni famiglia risparmiava per comprare un appartamento, ogni coppia giovane ne faceva il prerequisito per sposarsi e ogni investitore vi vedeva un rifugio sicuro.
Il collasso di Evergrande nel 2021 ha infranto quella certezza.
A catena, altri colossi — da Country Garden a Sunac — sono caduti sotto il peso del debito, lasciando milioni di acquirenti con mutui da pagare e appartamenti mai consegnati.
La fiducia, una volta intaccata, non si ripristina con un decreto.
Il governo ha cercato di intervenire con una “whitelist” di progetti prioritari e con linee di credito mirate a completare le costruzioni incompiute.
Ma S&P avverte: “Il problema non è più la consegna delle case, ma la domanda complessiva, molto più debole del previsto.”
La gente non compra, non perché manchino le case, ma perché non crede più nel futuro del mercato.
La politica monetaria tra prudenza e paralisi
A complicare la situazione c’è la linea attendista di Pechino.
Nel 2025, la Banca Popolare Cinese ha ridotto il tasso di riferimento sui mutui quinquennali di soli 10 punti base, contro i 60 del 2024.
Un segnale chiaro: la leadership preferisce contenere i rischi di bolla creditizia piuttosto che stimolare in modo aggressivo la ripresa.
Dietro questa scelta c’è una logica: il governo vuole evitare di tornare alla “droga” del debito, che ha già prodotto distorsioni sistemiche.
Ma la prudenza rischia di trasformarsi in inerzia macroeconomica.
Con il credito più costoso e la fiducia in caduta, il mercato resta immobile: né precipita definitivamente, né riparte.
È la stagnazione in versione cinese — un equilibrio instabile, dove l’obiettivo non è più crescere, ma resistere senza crollare.
Un eccesso di offerta che diventa un peso strutturale
Il lato oscuro del boom edilizio è oggi visibile in ogni città di seconda e terza fascia.
Secondo S&P, la superficie di abitazioni completate, ma invendute ha raggiunto 762 milioni di metri quadrati ad agosto 2025, in aumento rispetto ai 753 milioni di dicembre 2024.
Una quantità sufficiente a ospitare l’intera popolazione della Francia.
Questo enorme inventario di case vuote sta comprimendo i margini dei costruttori e riducendo le entrate fiscali dei governi locali, storicamente dipendenti dalla vendita dei terreni.
Molte amministrazioni provinciali — dal Guangdong all’Henan — si trovano ora in trappola finanziaria, incapaci di pagare i debiti accumulati durante il boom edilizio.
Il risultato è un circolo vizioso: i governi non investono, le imprese non costruiscono, le famiglie non comprano.
Una paralisi che non si misura solo in punti di PIL, ma in anni di fiducia e crescita perduti.
Le città e la politica del mattone: esperimenti di sopravvivenza
Alcune città hanno provato a invertire la rotta.
Nel 2025, Shanghai, Shenzhen e Guangzhou hanno alleggerito le restrizioni sugli acquisti, consentendo a più cittadini di possedere seconde e terze case.
Tuttavia, le vendite sono cresciute solo nelle zone periferiche, mentre nei quartieri centrali i prezzi sono rimasti stagnanti o in calo.
Secondo gli analisti di S&P, la ripresa del mercato potrebbe partire solo dalle città di primo livello, dove il potere d’acquisto e l’offerta di lavoro restano più forti.
Ma questo rischia di accentuare la frattura sociale e geografica: metropoli resilienti da un lato, province svuotate dall’altro.
È la geografia della nuova Cina: un Paese ancora in costruzione, ma non più in espansione.
Un modello economico che cambia pelle
La crisi immobiliare non è solo una questione di mattoni: è una cartina di tornasole della trasformazione del modello cinese.
Il governo di Xi Jinping punta a riorientare la crescita su tecnologia, manifattura avanzata e sostenibilità, riducendo la dipendenza dal settore immobiliare, che per decenni ha rappresentato fino al 30% del PIL.
Ma la transizione è lenta e complessa.
Costruire semiconduttori o pannelli solari richiede anni di investimenti e know-how, mentre il real estate garantiva ritorni immediati e visibili.
L’inevitabile rallentamento ha effetti sociali e politici: meno occupazione, minore mobilità, più tensione nelle classi medie urbane.
È la metamorfosi di un’economia che deve imparare a crescere senza espandersi.
Il mattone come specchio del potere
Il crollo del real estate non è solo il fallimento di un settore, ma il segnale di una trasformazione più ampia: la Cina del XXI secolo sta riscrivendo le regole della propria crescita.
Il cemento, che un tempo rappresentava la solidità del sogno collettivo, oggi diventa la metafora della sua fragilità.
La sfida per Pechino non è più solo economica, ma politica: ricostruire la fiducia in un modello che prometta stabilità senza debito, prosperità senza speculazione.
La vera domanda, oggi, non è quando torneranno a salire i prezzi delle case, ma se la Cina saprà costruire una nuova forma di fiducia nazionale — fatta non di mattoni, ma di credibilità.
Il crepuscolo del mattone, in fondo, potrebbe segnare l’alba di qualcosa di più grande:
una Cina meno euforica, più sobria, ma anche più consapevole dei limiti e delle possibilità del proprio futuro economico.