13 mosse e 2 trilioni di yuan in progetti per rilanciare la Cina: lo Stato apre i cantieri al capitale privato

RedazioneRedazione
| 12/11/2025
13 mosse e 2 trilioni di yuan in progetti per rilanciare la Cina: lo Stato apre i cantieri al capitale privato

Pechino vara un piano in 13 punti per convogliare capitali privati nei grandi progetti nazionali: dai treni ad alta velocità al nucleare. Obiettivo: ridurre il peso pubblico e riaccendere la fiducia nel mercato.

Con oltre 2 trilioni di yuan in nuovi progetti infrastrutturali, la Cina prova a reinventare la propria economia. Lo Stato resta regista, ma invita il capitale privato a entrare in scena. Un esperimento ambizioso e rischioso di capitalismo con caratteristiche cinesi.

Lo Stato chiama, il mercato risponde (forse)

Non accadeva da decenni.
La Cina, patria del centralismo economico, ora chiede aiuto al privato.
Il Consiglio di Stato ha approvato un piano in 13 mosse per aprire le infrastrutture strategiche al capitale di imprese e fondi.
Ferrovie, centrali nucleari, dighe, gasdotti: i grandi cantieri del potere diventano, almeno in parte, terreno condiviso.

Dietro la svolta, un fatto. Il vecchio modello, quello della spesa pubblica illimitata, non regge più.
Troppo debito, troppi progetti a basso rendimento. E così Pechino cambia linguaggio: meno “piano quinquennale”, più “partnership”.
Meno slogan, più contabilità.

Un linguaggio pragmatico, quasi occidentale. E un segnale: lo Stato, da solo, non basta più.

13 mosse, un messaggio

Il documento, diffuso dal Consiglio di Stato, è un mosaico di aperture.
Riduzione dei vincoli, incentivi fiscali, semplificazione delle procedure, maggiore trasparenza.
Ma soprattutto, l’invito esplicito al capitale privato a partecipare ai grandi progetti infrastrutturali del Paese.

In passato, questi settori erano blindati.
Ora potranno aprirsi fino al 20% di partecipazione azionaria privata, e in certi casi anche oltre, se approvato dal governo centrale.

È una riforma “silenziosa”, ma strutturale. La più grande apertura al mercato dall’era post-WTO.
Con un obiettivo chiaro: riconquistare la fiducia di un settore privato in ritirata.

Le 13 mosse di Pechino

Dietro la formula burocratica si cela una narrativa politica: lo Stato guida, ma invita il mercato a camminare accanto.
Le misure, a ben guardare, raccontano il tentativo di costruire un capitalismo amministrato con una faccia umana e un portafoglio pubblico dietro le quinte. Eccole nel dettaglio:

1. Apertura selettiva dei settori strategici
Ferrovie, nucleare, idroelettrico, gasdotti e reti energetiche aprono a investitori privati.
Non una liberalizzazione totale, ma una fessura attentamente calibrata: lo Stato resta regista, il privato diventa comparsa, ma pagante.

2. Quote azionarie più ampie
Per la prima volta, i privati potranno detenere fino al 20% dei progetti infrastrutturali.
Una quota piccola per Wall Street, ma enorme per Pechino, dove la partecipazione privata in settori strategici era quasi tabù.

3. Rimozione delle barriere d’ingresso
Molti settori dominati dalle imprese statali (SOE) vengono parzialmente “liberalizzati”.
Niente più monopolio di fatto, almeno sulla carta.

4. Semplificazione delle procedure
Iter più brevi, pratiche digitalizzate, meno burocrazia.
Una riforma tanto attesa quanto difficile da realizzare in un Paese dove ogni timbro è potere.

5. Finanza e nuovi strumenti di capitale
Nascono fondi pubblico-privati, REIT infrastrutturali, piattaforme di investimento miste.
Un modo per trasformare cemento e acciaio in prodotti finanziari liquidi e globalmente appetibili.

6. Parità di trattamento
Le imprese private avranno, almeno in teoria, pari condizioni rispetto alle statali nelle gare e nelle concessioni.
È la promessa più simbolica e la più difficile da mantenere.

7. Quota privata negli appalti pubblici
Almeno il 40% del budget dei grandi progetti dovrà coinvolgere aziende private.
Un’ancora di salvezza per le PMI, spesso soffocate dai colossi statali.

8. Pagamenti anticipati e liquidità
Lo Stato pagherà in anticipo una parte dei contratti, per evitare il collasso di cassa delle imprese private impegnate in opere pubbliche.

9. Ecosistemi industriali aperti
Pechino invita le aziende private nei suoi parchi tecnologici e laboratori statali.
Un segnale di apertura culturale, più che economica: condividere l’innovazione per accelerarla.

10. Nuovi settori emergenti
Si spalancano mercati che fino a poco fa erano militari: aviazione a bassa quota, lanci spaziali, telecomunicazioni satellitari.
Lì, il privato non è solo ammesso, è richiesto.

11. Scienza e ricerca condivisa
Anche le infrastrutture di R&S pubbliche aprono a investitori “qualificati”.
L’obiettivo è portare la logica del profitto nel cuore della conoscenza statale.

12. Trasparenza e tutela legale
Maggiore pubblicità delle gare, revisione delle regole discriminatorie, accesso ai dati pubblici.
Il governo promette un mercato “prevedibile”, parola rarissima nel lessico politico cinese.

13. Fondi guida e garanzie statali
Lo Stato continuerà a garantire, come ultimo paracadute.
Perché in Cina, anche quando si apre al privato, il rischio resta socializzato.

Dai treni al nucleare: aprono i santuari

I numeri impressionano.
Oltre 2 trilioni di yuan (circa 280 miliardi di dollari) in progetti già inseriti nei piani di investimento.
E tra le priorità:

  • Ferrovie ad alta velocità, con nuove linee per oltre 3.000 km
  • Centrali nucleari di nuova generazione, più efficienti e meno inquinanti
  • Condutture per gas e petrolio, strategiche per la sicurezza energetica
  • Dighe e impianti idroelettrici, cruciali per la stabilità ambientale
  • Reti di trasmissione interprovinciali, per sostenere l’espansione industriale.

È un’apertura che non intacca il controllo statale, ma lo modernizza. Lo Stato resta al centro, solo che ora non paga tutto da solo. Una mossa di sopravvivenza, non di ideologia.

Il contesto: fiducia a terra, crescita in bilico

Negli ultimi anni, gli investimenti privati in Cina hanno rallentato fino quasi a fermarsi.
Colpa della pandemia, certo, ma anche della stretta regolatoria e di un clima d’incertezza che ha raffreddato gli imprenditori.
Molti hanno preferito spostare i capitali all’estero, in Vietnam, in Malesia, o semplicemente aspettare.

Nel frattempo, i colossi pubblici hanno continuato a costruire, spesso senza ritorni economici.
Ora Pechino deve rimettere insieme i pezzi: rilanciare la crescita, senza gonfiare il debito.
Rivitalizzare il mercato interno, senza perdere il controllo.

È una danza sottile, quasi una coreografia. E per riuscirci serve una cosa che il governo non può imporre per decreto: fiducia.

Il capitale come segnale politico

In Cina, investire è un atto economico, sì. Ma anche un atto politico.
Ogni yuan che entra in un progetto pubblico è una dichiarazione di fiducia nel sistema.
E Pechino lo sa.
Aprire i cantieri al privato significa anche testare la lealtà del capitale.

Chi investe in una centrale nucleare, in una ferrovia, in una diga, non scommette solo su un rendimento.
Scommette sulla stabilità del regime, sulla prevedibilità delle regole, sulla continuità delle politiche.

Lo Stato, dal canto suo, manda un messaggio rassicurante: “Non vi controlleremo di meno, ma vi tratteremo meglio”. Un ossimoro? Forse. Ma in Cina funziona.

Opportunità e paradossi

Le opportunità sono immense, sì. Ma anche i rischi lo sono.
Molti progetti infrastrutturali richiedono anni per diventare redditizi, se mai lo diventeranno.
E la trasparenza, nonostante le promesse, resta una frontiera lontana.

Per gli investitori privati, domestici e internazionali, la sfida sarà doppia: navigare una burocrazia in movimento e capire dove finisce la partnership e dove inizia la subordinazione.

E poi c’è la questione ambientale.
Grandi dighe, oleodotti, centrali: simboli di sviluppo, ma anche di fragilità ecologica.
Il privato dovrà conciliare profitto e reputazione, due parole che raramente coesistono nei cantieri cinesi.

Un messaggio al mondo

Nel frattempo, Pechino osserva e comunica.
L’apertura al capitale privato è anche un messaggio geopolitico. Nonostante le tensioni con l’Occidente, la Cina non si chiude, non si isola.
Si adatta.

Mentre l’Europa discute di de-risking e gli Stati Uniti blindano i propri settori strategici, la Cina risponde con una versione riveduta del suo mantra: “apertura con controllo.”

Vuole capitali, ma alle sue condizioni. Vuole partner, ma non padroni.
È la nuova globalizzazione cinese: selettiva, pragmatica, sorprendentemente flessibile.

Il nuovo contratto economico cinese

Forse non è solo economia, ma antropologia politica.
La Cina del 2025 sta cercando un nuovo equilibrio tra potere e mercato, tra fiducia e controllo.
Non demolisce il suo modello: lo ricabla.

Le 13 mosse non sono una rivoluzione, ma una riscrittura delle regole del gioco.
Se funzioneranno, la Cina potrà vantare un sistema ibrido capace di unire pianificazione e profitto, capitale e disciplina.
Se falliranno, invece, il rischio non sarà solo economico.
Sarà di credibilità.

E in un Paese dove la fiducia è valuta politica, perderla sarebbe il vero default.

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