Con il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca, l’agenda commerciale statunitense ha ripreso una traiettoria protezionista, con nuove tariffe all’importazione che mirano a rilocalizzare la produzione industriale all’interno dei confini americani. Se settori come l’acciaio e l’automotive sono stati immediatamente colpiti, il comparto farmaceutico sembrerebbe – almeno inizialmente – godere di un’“immunità parziale”. Ma le dichiarazioni successive del presidente fanno presagire un cambio di rotta anche per il pharma globale.
Dazi sui farmaci: strategia industriale o rischio sistemico?
La minaccia di imporre “tariffe significative” sull’importazione di farmaci e principi attivi farmaceutici (API) risponde a un obiettivo politico chiaro: riportare la produzione negli Stati Uniti e ridurre la dipendenza da Paesi terzi, in particolare Cina e India. Ma ciò che appare come una misura di reindustrializzazione rischia di trasformarsi in un boomerang economico e sanitario.
Secondo i dati del Dipartimento della Salute statunitense, oltre l’80% degli API utilizzati oggi negli USA proviene da Asia e Subcontinente Indiano. Solo il 4% è prodotto a livello nazionale. Imprimere una svolta autarchica in un settore caratterizzato da supply chain globali, regolamentazioni complesse e margini operativi stretti rischia di destabilizzare un intero ecosistema.
Costi, inflazione farmaceutica e accesso alle cure
Dal punto di vista economico, l’imposizione di dazi sull’importazione di farmaci si tradurrebbe, nel breve termine, in un aumento dei costi lungo tutta la catena del valore. Le aziende potrebbero essere costrette a riversare tali aumenti sui sistemi sanitari pubblici, sulle assicurazioni private o direttamente sui cittadini. L’effetto immediato sarebbe un rincaro del costo dei medicinali negli Stati Uniti, già tra i più alti al mondo.
Nel medio termine, la rilocalizzazione della produzione richiederebbe anni di investimenti infrastrutturali, approvazioni FDA, adeguamento degli standard GMP (Good Manufacturing Practices) e formazione di una forza lavoro altamente specializzata. Il rischio? Ulteriori interruzioni nell’approvvigionamento e carenze di farmaci essenziali, come già accaduto durante la pandemia.
Un equilibrio geopolitico delicato
La questione ha anche una valenza geopolitica. Cina e India, principali produttori globali di materie prime farmaceutiche, potrebbero reagire con contro-tariffe o restrizioni all’export. In uno scenario di crescente rivalità USA-Cina, il settore farmaceutico rischia di diventare un nuovo campo di battaglia commerciale, con implicazioni dirette per la sicurezza sanitaria globale.
Nel frattempo, l’Unione Europea osserva con preoccupazione. I giganti del pharma europeo temono che una politica aggressiva degli Stati Uniti possa attrarre investimenti e R&D oltreoceano, aggravando l’erosione della competitività industriale europea. La richiesta alla Commissione UE è chiara: accelerare le riforme del settore e introdurre incentivi per trattenere produzione e innovazione in Europa.
Un futuro incerto tra politica industriale e salute pubblica
L’intenzione della nuova amministrazione Trump di colpire anche il pharma con dazi selettivi rappresenta un’arma a doppio taglio. Da un lato, la volontà di ristrutturare le filiere critiche in chiave nazionale risponde a legittime esigenze di autonomia strategica. Dall’altro, si scontra con la realtà di un settore iper-globalizzato, dove l’interdipendenza è la regola, non l’eccezione.
Il dilemma dei Big Pharma è quindi emblematico: come conciliare la spinta alla sovranità industriale con la necessità di garantire accesso rapido, economico e sicuro ai farmaci? La risposta non può essere puramente tariffaria. Servono politiche industriali multilivello, investimenti strutturali e collaborazione pubblico-privato per costruire una resilienza farmacologica sostenibile nel tempo.