Milano, la città che ha smesso di scegliere

| 29/12/2025
Le torri del Bosco Verticale illuminate al tramonto, con vegetazione sui balconi e lo skyline moderno di Milano sullo sfondo

Ogni anno, in questi giorni, torno a Milano per il periodo di Natale. È un tempo sospeso, in cui la città rallenta appena, quel tanto che basta per farsi osservare. Milano è la città dove ho studiato e vissuto per molti anni. Proprio per questo, quando il rumore di fondo si attenua, sento il bisogno di fermarmi a riflettere su ciò che è diventata.

Milano non è mai stata una città che aveva bisogno di raccontarsi. Bastava guardarla lavorare. Nei cortili nascosti dietro i portoni, nelle officine diventate laboratori, nel rumore asciutto dei tram e in quel silenzio concentrato che accompagna le città serie. Milano non prometteva: produceva. Non seduceva: funzionava. Era riconoscibile senza slogan, moderna senza esibizionismo, internazionale senza perdere accento.

Oggi Milano è ancora potente. Ma non è più nitida.

Negli ultimi anni ha corso come se la velocità fosse, di per sé, una strategia. Ha inseguito modelli globali come fossero neutri, dimenticando che ogni città, per restare tale, deve scegliere cosa assorbire e cosa respingere. L’internazionalizzazione è diventata omologazione. La crescita, espansione. La modernità, immagine. Così Milano ha iniziato a crescere verso l’alto, mentre si svuotava dentro.

Il punto di rottura ha un nome semplice: abitare.

La casa, che dovrebbe essere il primo patto tra una città e i suoi cittadini, si è trasformata in un prodotto finanziario. Non si costruisce più per vivere, ma per valorizzare. Non per restare, ma per rivendere. I prezzi salgono come se i salari li seguissero. Non accade. E così la classe che lavora, insegna, cura, progetta – quella che rende Milano una città produttiva e non decorativa – viene lentamente spinta ai margini. Milano attrae capitali, ma perde residenti. Accoglie flussi, ma allontana radici.

È in questo slittamento che la città del “fare” si è trasformata nella città del “mostrare”. Gli eventi hanno sostituito i processi, gli annunci i risultati, la narrazione la visione industriale. Lo skyline cambia rapidamente, ma il tessuto urbano si assottiglia. Le fabbriche non sono state solo rimpiazzate dai grattacieli: è stato rimpiazzato un immaginario. Quello del lavoro quotidiano, silenzioso, che non fa rumore ma crea valore.

Il paradosso è evidente: Milano appare più ricca, ma è più fragile. Più internazionale, ma meno riconoscibile. Più veloce, ma meno sicura della direzione. Rischia di vivere consumando il proprio capitale simbolico e sociale, confondendo l’attenzione globale con la solidità strutturale.

Non è nostalgia. Milano è sempre cambiata. Ma in passato il cambiamento aveva una bussola. Era funzionale a un’idea chiara di città: europea nel senso più concreto del termine, manifatturiera e finanziaria insieme, sobria, meritocratica, capace di innovare senza perdere rigore. Oggi, invece, l’identità sembra diventata un dettaglio negoziabile, sacrificabile sull’altare dell’attrattività immediata.

Una città non perde se stessa quando evolve.

La perde quando smette di scegliere.

Quando lascia che siano le rendite, le mode globali o i flussi di capitale a decidere al posto suo. Quando scambia il successo immobiliare per progresso sociale e la crescita dei metri quadri per crescita delle opportunità.

Milano non ha bisogno di rallentare. Ha bisogno di ricordarsi chi è. Di tornare a investire nel lavoro prima che nell’immagine. Nei processi prima che negli eventi. In una città abitabile prima che vendibile.

Perché una città può anche diventare globale senza identità.

Ma una città che perde la propria identità diventa, inevitabilmente, una città qualunque.

E Milano, per chi l’ha studiata, vissuta e amata, non è mai stata una città qualunque.

L’augurio è che Milano torni a scegliere.

E che scelga di essere, ancora una volta, una città che funziona non perché brilla, ma perché crea futuro.

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