Dagli Stati Uniti alla Cina, la competizione globale sull’IA ridefinisce il rapporto tra tecnologia, territorio e governance. Quale rotta per l’Europa?
La crescita accelerata dell’intelligenza artificiale negli Stati Uniti sta mostrando una verità destinata a ridisegnare le politiche industriali delle prossime decadi: l’IA non è più soltanto un settore innovativo, ma una infrastruttura critica.
Secondo recenti analisi, circa il 4,4% del consumo elettrico americano è oggi assorbito dai data center, una quota destinata ad aumentare per sostenere modelli generativi sempre più esigenti in termini di potenza computazionale. La “corsa all’energia” che ne deriva sta trasformando l’architettura industriale statunitense e la stessa geopolitica del sistema elettrico.
Parallelamente, la spesa in capitale destinata all’IA ha contribuito più dei consumi privati alla crescita del PIL del 2025: una rivoluzione economica che sposta il baricentro della ricchezza dai beni materiali ai sistemi cognitivi globali.
Negli Stati Uniti, aziende come Palantir, Nvidia e CenterPoint puntano a velocizzare la costruzione dei data center tramite piattaforme digitali che impiegano l’IA stessa per ottimizzare catene di approvvigionamento e permessi.
Eppure, emergono ormai dubbi forti sulla sostenibilità economica di questo modello: secondo IBM, l’enormità dei costi infrastrutturali rischia di rendere non redditizia la spinta attuale.
Mentre gli Stati Uniti concentrano l’attenzione sulla dimensione fisica dell’IA — data center, reti, investimenti — la Cina sembra aver intrapreso una strada complementare ma altrettanto strategica: portare l’IA nella vita quotidiana, come strumento operativo immediatamente fruibile da milioni di persone. Il caso di LingGuang, sviluppata da Ant Group, ne è testimonianza.
Non si tratta di un modello linguistico tradizionale: è un ambiente di runtime che trasforma le richieste dell’utente in applicazioni funzionanti in tempo reale, a partire dal codice generato automaticamente dalla stessa IA.
Se si chiede un simulatore per valutare il risparmio passando a un’auto elettrica, in pochi secondi appare un software completo: grafici dinamici, interfaccia interattiva, aggiornamento dei dati in tempo reale. Non è solo rapidità.
È un cambio di paradigma: l’IA non risponde più descrivendo una soluzione, ma diventando essa stessa la soluzione. In poche settimane l’utilizzo ha superato milioni di utenti e costretto l’azienda a espandere ripetutamente la capacità dei server.
L’interesse non riguarda solo la tecnologia, ma la percezione diffusa che l’intelligenza artificiale stia finalmente diventando utile, incorporata nella quotidianità, nella creatività personale, nella micro-automazione domestica.
Se l’approccio occidentale è ancora centrato sul testo e sui modelli linguistici, quello cinese integra nativamente la dimensione multimodale e software-centrica: ciò che l’utente vede non è un paragrafo, ma un mini-software costruito su richiesta, con modelli 3D, mappe interattive, animazioni, dati strutturati. Il successo di LingGuang va letto nel quadro politico e industriale cinese: dopo un periodo di forte controllo governativo sulle Big Tech, Ant Group ritorna protagonista in un’area — l’IA nativa — considerata strategica per la competizione globale.
L’intelligenza artificiale diventa così anello di congiunzione tra innovazione privata e direzione pubblica: un’operazione di politica industriale che si muove con decisione verso la sovranità tecnologica, riducendo dipendenze esterne e puntando sulla capacità di generare piattaforme autonome.
Rispetto al modello statunitense, in cui la crescita è trainata da investimenti enormi in infrastrutture materiali con rischi di sostenibilità, la Cina sta mostrando come l’IA possa radicarsi direttamente nell’economia d’uso, aumentando produttività, inclusione digitale e impatto sociale.
È qui che si delinea una differenza strategica cruciale: due nazioni non stanno solo costruendo tecnologie diverse, ma idee diverse di futuro.
L’Italia e l’Unione Europea non possono esimersi dal cogliere la natura sistemica di ciò che sta accadendo nel panorama internazionale dell’intelligenza artificiale. La questione che oggi si pone ai decisori pubblici riguarda quale direzione strategica adottare per affrontare questa trasformazione.
Da un lato, vi è la possibilità di puntare sul governo dell’infrastruttura fisica dell’IA — dalle reti di energia ai chip, dai data center ai supercomputer — seguendo una traiettoria più vicina al modello statunitense, che vede nella potenza computazionale e nella disponibilità di risorse materiali il fulcro della competizione globale.
Dall’altro, l’Europa potrebbe ambire a promuovere un approccio maggiormente orientato alla dimensione d’uso, all’utilità quotidiana dei servizi e alla sovranità digitale dell’utente finale, sul solco dell’esperienza cinese che sta rendendo l’IA uno strumento immediatamente operativo nella vita delle persone. È altrettanto plausibile che la risposta più efficace consista in una sintesi delle due visioni, un equilibrio capace di tenere insieme la forza dell’infrastruttura materiale e il valore dell’innovazione applicata, evitando così di restare indietro in entrambe le sfide.
Una politica industriale lucida deve riconoscere che: dati, calcolo e applicazioni quotidiane non sono piani separati, ma tre aspetti di un’unica infrastruttura cognitiva. L’intelligenza artificiale è ormai il luogo in cui si intrecciano economia, ambiente, sicurezza, diritti.
Ciò che prima era tangibile — cemento e acciaio — oggi si manifesta come potenza computazionale, pipeline di codice, reti neurali.
La posta in gioco è l’autonomia strategica delle società, la qualità della democrazia e la capacità di orientare il cambiamento tecnologico verso fini collettivi, prima che l’efficienza algoritmica si trasformi in destino.
L’Europa, che ha nell’equilibrio tra innovazione e tutela un tratto distintivo, ha la responsabilità di non restare nel ruolo di spettatrice.
Scrivere il futuro non significa solo addestrare modelli, ma definire le condizioni entro cui essi operano.
E dunque, ancora una volta: non si tratta più di chiedersi se l’IA cambierà le nostre economie e società. La vera domanda è: saremo in grado di indirizzarla, prima che sia l’IA a indirizzare noi?
