Il momento dell’AI per l’Italia: scegliere la competitività, non la comodità

| 04/12/2025
Illustrazione futuristica della mappa digitale dell’Europa con freccia luminosa verso l’alto, simbolo di crescita, e grattacieli stilizzati che rappresentano mercati frammentati e connessi tramite tecnologie digitali.

Da decenni l’Italia vive sospesa tra l’orgoglio per la propria tradizione manifatturiera e la consapevolezza delle sue fragilità strutturali. In passato questa ambivalenza poteva essere considerata quasi fisiologica: il mondo cambiava più lentamente, la globalizzazione era più morbida, e il vantaggio competitivo accumulato negli anni del miracolo economico sembrava sufficiente a garantire stabilità. Oggi, però, nulla di tutto questo è più vero. L’arrivo della manifattura “AI-native” rappresenta una rottura storica: non è un aggiornamento tecnologico, ma la transizione verso un nuovo sistema industriale che riscrive processi, ruoli, investimenti e rapporti di forza tra le nazioni.

Ciò che sta accadendo in città come Shenzhen, Suzhou, Seoul, Austin, Bangalore ed Eindhoven non è un semplice avanzamento lungo la traiettoria digitale. È la costruzione di ecosistemi industriali auto-rigeneranti, in cui la produzione diventa per definizione prevedibile, adattiva, autonoma. Interi impianti funzionano come organismi intelligenti: analizzano costantemente miliardi di dati, correggono deviazioni impercettibili, ottimizzano flussi, materiali e tempi con una velocità incompatibile con qualsiasi modello tradizionale. Le filiere globali non sono più catene lineari, ma reti neurali distribuite. Le fabbriche non sono stabilimenti, ma piattaforme di apprendimento.

In Cina, stabilimenti a Suzhou riducono i difetti del 35 per cento al giorno ricalibrando automaticamente la geometria degli stampi tramite modelli generativi. In Corea, a Busan, la manutenzione predittiva basata su algoritmi proprietari analizza vibrazioni e micro-anomalie ascoltando letteralmente il “battito” di ogni macchina. In Olanda, a Eindhoven, le linee di produzione dei semiconduttori arrivano a ottimizzare 200 parametri ogni 60 secondi. Non sono avanguardie: sono presagi del mondo che verrà.

L’Italia tutto questo lo osserva, spesso con ammirazione, talvolta con rassegnazione, quasi mai con la volontà di emularlo in modo sistematico. Il Paese continua a parlarsi addosso, oscillando tra entusiasmo superficiale e difesa identitaria. Si celebra il potenziale dell’AI ma si ignorano gli ostacoli reali: l’assenza di un’infrastruttura di calcolo adeguata, la frammentazione della governance, i tempi autorizzativi incompatibili con l’innovazione, la difficoltà ad attrarre ingegneri e data scientist, la cronica sotto-capitalizzazione delle imprese.

La rassicurante narrazione secondo cui l’Italia sarebbe una potenza manifatturiera “per natura” non regge più. Non in un mondo dove la manifattura non dipende più solo da capacità produttive, ma dalla velocità con cui un sistema industriale può generare insight, apprendere da essi e trasformarli in miglioramenti continui. I Paesi che guidano questa nuova era non sono quelli con più fabbriche, ma quelli con più intelligenza distribuita. Sono quelli che hanno costruito un’infrastruttura invisibile — dati, algoritmi, cloud, governance, capitale umano — che abilita tutto il resto.

La verità è che l’Italia, se vuole competere, deve abbandonare la comfort zone del “siamo già bravi” e adottare la disciplina della trasformazione. Non può farlo con iniziative sparse, né con micro-interventi che generano visibilità ma non scala. Serve una direzione nazionale, una cabina di regia unica, una governance che riordini la molteplicità di poli, distretti, competenze e iniziative oggi disperse. Nessun Paese vincente nell’AI industriale ha lasciato la propria strategia all’improvvisazione territoriale: la Cina ha una pianificazione centralizzata pluridecennale, la Corea investe in modo coordinato attraverso ministeri e conglomerati, gli Stati Uniti stanno costruendo un’infrastruttura federale di compute per non dipendere da nessuno.

Il costo dell’esitazione è già evidente. Tutti i settori chiave del Made in Italy — meccanica, automazione, moda, agroalimentare, design, automotive — sono oggi oggetto di pressione competitiva. I concorrenti internazionali stanno scalando l’AI con una velocità incompatibile con i ritmi italiani. Ogni anno che passa, il divario di produttività si allarga; ogni anno senza una strategia nazionale dei dati indebolisce la competitività del sistema industriale; ogni anno senza una governance unificata riduce la capacità dell’Italia di contare nei negoziati europei e internazionali.

Eppure l’Italia dispone ancora di una base straordinaria da cui ripartire: un patrimonio industriale ricchissimo, un sistema produttivo che sa innovare quando è costretto a farlo, università tecniche di valore, imprenditori capaci di connettere creatività e tecnica come pochi al mondo. Ma queste risorse non si attivano da sole: hanno bisogno di una direzione, di un investimento sistematico, di un ecosistema favorevole alle decisioni rapide, di un contesto regolatorio che premi chi innova e non chi si oppone al cambiamento.

Non è più il tempo dei manifesti ispirazionali, né di un ottimismo di maniera che rassicura ma non prepara. L’intelligenza artificiale non è una moda e non è una moda passeggera: è l’infrastruttura critica del potere industriale del XXI secolo. I Paesi che la guidano non lo fanno attraverso dichiarazioni solenni, ma attraverso decisioni rapide, investimenti strategici e un’esecuzione continua. Bisogna passare dai progetti pilota all’adozione sistemica, dagli incentivi episodici alla costruzione di piattaforme nazionali, dalla frammentazione decisionale alla governance, dai proclami ai risultati misurabili.

Raramente nella storia industriale dell’Italia una finestra di opportunità è stata così grande e al tempo stesso così stretta. Il mondo non rallenterà in attesa che l’Italia decida cosa vuole diventare. Se sceglierà la competitività, potrà ancora giocare un ruolo nella nuova geografia economica globale. Se sceglierà la comodità, sarà la storia — non un manifesto — a ricordarle il prezzo dell’esitazione.

Questo è il momento in cui l’Italia deve scegliere. E scegliere in fretta.

Barberio & Partners s.r.l.

Via Donatello 67/D - 00196 Roma
P.IVA 16376771008

Policy
Privacy Policy
Cookie Policy
Termini e Condizioni
iscriviti alla nostra newsletter
Questo sito è protetto da reCAPTCHA e la Informativa sulla Privacy di Google, nonché i Termini di Servizio sono applicabili.