Il fondo sovrano saudita punta a triplicare la propria presenza finanziaria in Giappone, rafforzando un asse strategico nell’Asia del futuro.
Il Public Investment Fund, guidato da Yasir Al-Rumayyan, vuole portare gli investimenti fino a 27 miliardi di dollari entro il 2030. Una mossa che ridefinisce le ambizioni globali di Riad tra finanza, tecnologia e geopolitica asiatica.
Un asse che si riaccende a Tokyo
La dichiarazione del governatore del Public Investment Fund saudita, Yasir Al-Rumayyan, al FII Priority Asia Summit di Tokyo è uno di quei momenti che meritano attenzione: il fondo sovrano dell’Arabia Saudita intende portare i propri investimenti in Giappone per circa 27 miliardi di dollari entro il 2030, più del doppio di quanto allocato negli ultimi cinque anni.
Non è un semplice incremento di budget. È il segnale di una strategia che sta prendendo forma: Riad vuole un ruolo stabile nel cuore dell’economia avanzata asiatica, più vicino ai centri di tecnologia, manifattura di precisione e innovazione finanziaria.
Il Giappone, da parte sua, offre affidabilità, profondità di mercato, accesso a supply chain critiche e un ecosistema industriale che, pur attraversando cicli complessi, conserva un know-how unico. Un partner perfetto per la grande trasformazione saudita.
Il PIF e la strategia di Vision 2030
Da anni il fondo sovrano saudita è il braccio operativo della metamorfosi economica immaginata da Mohammed bin Salman. Vision 2030 è un programma ambizioso e spesso criticato, che mira a emancipare l’economia del Regno dal petrolio e a costruire un modello diversificato, trainato da finanza, turismo, tecnologia, sport e infrastrutture avanzate.
All’interno di questa strategia, gli investimenti internazionali del PIF funzionano come ponti industriali. Collegano il Paese a competenze che Riad non possiede ancora e che non può permettersi di sviluppare troppo lentamente. Il Giappone diventa così una tappa quasi inevitabile: semiconduttori, robotica, finanza e materiali critici sono settori nei quali Tokyo rimane un riferimento globale, nonostante il consolidato declino demografico.
Il PIF lo sa bene. E la decisione di moltiplicare la presenza nel mercato giapponese è tanto un gesto economico quanto politico: suggerisce che l’Arabia Saudita non intende limitarsi al ruolo di fornitore energetico, ma desidera un posto nelle catene globali del valore più avanzate.
Perché proprio ora?
Si potrebbe pensare che l’asse Riad–Tokyo sia un fatto contingente, legato all’attualità. In realtà è il risultato di una convergenza più profonda. Da un lato, il Giappone ha bisogno di nuovi alleati finanziari: la lunga stagnazione interna non ha azzerato il prestigio del suo mercato, ma ha reso più prezioso l’arrivo di capitali sovrani capaci di sostenere progetti innovativi.
Dall’altro, l’Arabia Saudita si trova in un momento di fluidità strategica. I rapporti con Washington attraversano fasi intermittenti; le relazioni con la Cina crescono, ma restano, per certi versi, sbilanciate; l’Europa, pur importante, non offre sempre lo stesso dinamismo nei settori in cui il Regno cerca accelerazione. Il Giappone rappresenta, quindi, un equilibrio virtuoso tra stabilità, alta tecnologia e una tradizione industriale rispettata da investitori globali.
Non va dimenticato, inoltre, il ruolo dei minerali critici. La transizione energetica globale richiede litio, terre rare, nichel, cobalto. Il Giappone, pur importandoli, controlla competenze avanzate nella raffinazione e nei processi industriali collegati. Per l’Arabia Saudita, che ambisce a diventare hub della nuova economia energetica, questo è un terreno già fertile.
Gli ETF, la finanza e il ponte dei capitali
Al-Rumayyan ha citato, con una certa convinzione, i nuovi exchange traded funds lanciati in collaborazione tra Arabia Saudita e Giappone. Non è retorica. La proliferazione di ETF bilaterali segnala una volontà concreta di radicare i mercati dei due Paesi in un rapporto meno episodico, più strutturale.
Gli ETF rappresentano una forma di democratizzazione finanziaria: permettono anche agli investitori medio-piccoli di partecipare alla crescita congiunta di economie distanti migliaia di chilometri. Se questi strumenti verranno ampliati, come suggerito dal governatore del PIF, l’asse tra Riad e Tokyo potrebbe estendersi ben oltre i grandi fondi istituzionali, entrando nel tessuto finanziario quotidiano.
È un modo per trasformare una relazione fra governi in una relazione fra società.
Una mossa che riscrive gli equilibri asiatici
Per il Giappone, attirare capitali sauditi in volumi così significativi significa ridurre la propria dipendenza da circuiti finanziari dominati dagli Stati Uniti e, allo stesso tempo, affermare la propria centralità nella geografia economica asiatica, oggi dominata dall’asse Cina–Asean.
Per l’Arabia Saudita, invece, la partita è più ampia: costruire una rete di partnership diversificate, capaci di garantire maggiore autonomia strategica in un mondo in cui nessuna potenza, nemmeno le più solide, può permettersi un allineamento univoco.
La collaborazione economica diventa così un’estensione della diplomazia. E in questo caso, una diplomazia che passa attraverso investimenti di lungo periodo, partecipazioni industriali e una presenza stabile nei mercati di un Paese considerato tra i più affidabili al mondo.
Un ponte finanziario che diventa geopolitica
Se l’obiettivo dichiarato, 27 miliardi di dollari entro il 2030, sembra un numero tecnico, la sua portata è tutt’altro che neutrale. È un segnale: il Medio Oriente non è più soltanto un serbatoio energetico e l’Asia non è più soltanto un “mercato da aggredire”. Sono due poli in trasformazione che si osservano, si studiano e sempre più spesso si avvicinano.
Il PIF, con i suoi capitali sterminati, non investe soltanto in aziende; investe in alleanze, in traiettorie industriali, in equilibri futuri.
E il Giappone, pur con tutte le sue fragilità, resta un punto fermo nell’infrastruttura tecnologica globale.
Nel prossimo decennio, è probabile che questo asse diventi uno dei più silenziosi, ma decisivi motori di cambiamento nell’economia asiatica. Da una parte un Paese che vuole reinventarsi; dall’altra una potenza industriale che cerca nuova linfa finanziaria. In mezzo, un mondo che corre veloce e che, spesso, non aspetta nessuno.
Se davvero nascerà un ponte stabile tra Riad e Tokyo, sarà un ponte capace di spostare traffici, investimenti, priorità e, forse, una parte del futuro stesso della finanza globale.
