Cina, il paradosso del carbone verde: perché le mega-centrali di Gansu crescono nel boom delle rinnovabili

RedazioneRedazione
| 22/11/2025
Cina, il paradosso del carbone verde: perché le mega-centrali di Gansu crescono nel boom delle rinnovabili

Nel cuore del corridoio di Hexi, la provincia di Gansu è vetrina delle rinnovabili cinesi, ma continua a investire in gigantesche centrali a carbone.

Mentre la Cina guida la transizione energetica globale con record di nuova capacità eolica e solare, nel deserto del Gobi entrano in funzione unità a carbone da 1.000 MW l’una. Il caso della centrale di Changle svela il vero nodo della strategia di Pechino: usare il carbone come “assicurazione” di sistema, rischiando però di bloccare per decenni la traiettoria delle emissioni.

Gansu, vetrina verde della Cina (ma il carbone non arretra)

Sul corridoio di Hexi, quella striscia di terra fertile ritagliata tra l’altopiano del Loess e il deserto del Gobi, il paesaggio sembra uscito da una brochure della transizione energetica: file di turbine eoliche a perdita d’occhio, campi fotovoltaici che seguono la curvatura della terra, dighe sul Fiume Giallo che regolano ogni goccia. Gansu è la “frontiera rinnovabile” della Cina, una delle province dove vento e sole sono più abbondanti e dove gli investimenti verdi hanno corso più veloce.

Oggi, le rinnovabili rappresentano circa il 62% della capacità di generazione elettrica installata nella provincia: un dato che, sulla carta, la colloca tra i campioni nazionali dell’energia pulita.

Eppure, basta spostare lo sguardo oltre le dune per vedere un’altra immagine, meno rassicurante: le sagome massicce delle torri di raffreddamento della centrale di Changle, una delle mega-centrali a carbone più grandi dell’Ovest cinese. Ogni nuova unità che entra in funzione aggiunge 1.000 megawatt di potenza, fino a raggiungere i 6.000 MW complessivi: l’equivalente del fabbisogno elettrico di un piccolo Paese europeo.

È in questa contraddizione visibile – pannelli solari da una parte, ciminiere dall’altra – che si legge il paradosso energetico della Cina contemporanea.

La centrale di Changle: il “polmone fossile” del corridoio di Hexi

La centrale di Changle, nel deserto di Guazhou, non è un vecchio relitto della fase industriale pesante: è un impianto di ultima generazione, strategico per la rete. Progettata con sei unità da 1.000 MW, è pensata fin dall’inizio come “centrale di punta” per stabilizzare il gigantesco hub eolico e fotovoltaico di Jiuquan, uno dei più grandi al mondo.

Nel 2025 le nuove unità 5 e 6 sono via via entrate in esercizio commerciale dopo i test di carico: un segnale chiaro che la corsa al carbone in Cina non riguarda solo vecchi impianti prolungati all’infinito, ma una nuova generazione di centrali costruite proprio nel cuore delle province “verdi”.

A livello locale, le autorità presentano Changle come una “batteria termica” al servizio delle rinnovabili: quando il vento cala, quando il sole si spegne dietro la polvere del deserto, è la centrale a carbone che deve entrare in funzione in pochi minuti per evitare blackout. È un argomento che torna spesso nei documenti ufficiali e nelle interviste ai funzionari: sicurezza energetica prima di tutto, crescita economica mai interrotta, costi sociali delle interruzioni di corrente ridotti al minimo.

Il risultato, però, è che la provincia che dovrebbe simboleggiare la fuga dal carbone diventa uno dei luoghi dove il carbone viene ingegnerizzato per durare più a lungo.

Il contesto globale: la Cina superpotenza verde… e regina del carbone

Per capire perché Gansu conta sia turbine eoliche sia ciminiere, bisogna guardare alla fotografia complessiva del sistema energetico cinese.

Negli ultimi anni Pechino è diventata il baricentro della transizione globale: tra il 2019 e il 2024 ha rappresentato circa il 40% dell’espansione mondiale della capacità rinnovabile e ha superato la soglia dei 1.000 GW di sola capacità solare installata.

Nel 2024, da sola, la Cina ha aggiunto più capacità eolica e solare di quella cumulata in molti grandi Paesi industrializzati: il settore fotovoltaico è dominato da aziende cinesi lungo tutta la filiera, dai pannelli alle batterie, mentre le turbine “made in China” equipaggiano parchi eolici dentro e fuori i confini nazionali.

Eppure, nello stesso periodo, il Paese continua a segnare nuovi record nella domanda di carbone: nel 2024 il consumo di carbone è cresciuto ancora, facendo della Cina il Paese che brucia più carbone di tutti, oltre un terzo del totale mondiale, spesso proprio per alimentare le centrali elettriche.

Nel 2024 sono stati avviati cantieri per quasi 100 GW di nuova capacità a carbone, il livello più alto in quasi un decennio, mentre nel 2025 la messa in funzione di nuove centrali nella prima metà dell’anno è stata la più elevata dal 2016.

Questo è il quadro: la stessa Cina che guida il boom delle rinnovabili continua a costruire (e accendere) nuove centrali fossili. Gansu e Changle sono la versione in scala provinciale di questo compromesso nazionale.

Perché le rinnovabili di Gansu non bastano (ancora)

Se Gansu ha così tanta capacità eolica e solare, perché non può semplicemente spegnere le centrali a carbone? Qui entra in gioco la parte meno visibile della transizione, quella tecnica.

Le rinnovabili della provincia non sono “programmate”: il vento non soffia in base ai picchi di domanda, il sole cala proprio quando le famiglie accendono luci e riscaldamento. Senza un sistema di accumulo su larga scala – batterie, idroelettrico a pompaggio, idrogeno – la rete ha bisogno di una fonte di energia in grado di modulare la produzione praticamente in tempo reale.

Changle nasce esattamente con questa missione: è il “polmone” che si espande e si contrae al variare della generazione eolica e solare. I documenti di progetto la definiscono infatti una “centrale di punta” al servizio del grande hub rinnovabile di Jiuquan e della linea di trasmissione ad altissima tensione verso la Cina centrale.

Il problema è che, per fare questo lavoro, il carbone non resta in stand-by: brucia, emette CO₂, consuma acqua in una regione già arida. Più i sistemi di accumulo, le reti intelligenti e le riforme del mercato elettrico tardano a maturare, più il carbone resta l’unico “ammortizzatore” credibile.

In termini di clima, tradotto è semplice: il prezzo della stabilità di oggi rischia di essere un debito di emissioni che si pagherà domani.

La politica del “doppio binario” di Pechino

Gansu non è un’anomalia, ma un tassello di una strategia più ampia che gli analisti definiscono “doppio binario”: da una parte una corsa accelerata alle rinnovabili, dall’altra il mantenimento – e in molti casi l’espansione – della flotta a carbone.

Tra il 2022 e il 2023 la Cina ha approvato circa 220 GW di nuova capacità a carbone, iniziando la costruzione di decine di GW nel 2023 e nella prima metà del 2024.
Anche dopo un rallentamento momentaneo delle nuove approvazioni nel 2024, nel 2025 i permessi hanno di nuovo accelerato rispetto alla prima metà dell’anno precedente, secondo l’analisi di Greenpeace.

La logica ufficiale è chiara: finché non esisterà un sistema di accumulo e di gestione della rete in grado di assorbire la crescita esplosiva di eolico e solare, il carbone rimarrà in servizio come “backup”, soprattutto durante i picchi di consumo estivi e invernali.

In teoria, questa fase dovrebbe essere temporanea. Pechino promette di raggiungere il picco delle emissioni entro il 2030 e la neutralità climatica entro il 2060. Ma tra la teoria delle promesse e la pratica delle centrali che entrano oggi in esercizio c’è un vuoto temporale di decenni.

Ogni nuova unità da 1.000 MW come quelle di Changle viene progettata per funzionare 30–40 anni. Anche se venisse usata sempre meno nel mix complessivo, il rischio concreto è di trovarsi nel 2040–2050 con una flotta moderna, tecnicamente efficiente, ma climaticamente incompatibile con gli obiettivi globali.

I numeri del paradosso: più capacità verde, ma anche più carbone

Il lato più beffardo di questa storia sta nei numeri.

Secondo le stime della China Electricity Council, già nel 2024 la capacità installata di eolico e solare combinata è destinata a superare quella a carbone, arrivando al 40% del totale contro il 37% del carbone. In altre parole: sulla carta, il sistema elettrico cinese è sempre più verde.

Ma guardando non la capacità, bensì l’energia effettivamente prodotta, il quadro cambia. Il carbone continua a coprire la quota principale della generazione elettrica e nel 2024 la domanda legata al carbone ha toccato un nuovo massimo, trainata da elettricità e industria pesante.

È come avere un gigantesco parco auto di veicoli elettrici parcheggiati e continuare a usare ogni giorno i vecchi motori diesel per i tragitti più importanti.

In questo contesto, le mega-centrali come Changle non sono un’anomalia, ma un tassello logico di un sistema che si è “abituato” al carbone come infrastruttura di sicurezza.

Reti, accumulo, mercato: le tre condizioni che mancano

Per affrancarsi davvero dal carbone, Gansu e la Cina nel suo complesso non possono limitarsi a installare più pannelli e turbine: servono tre pilastri che oggi sono ancora incompleti.

1. Reti di trasmissione più flessibili
Una parte dell’energia rinnovabile prodotta in province interne come Gansu non arriva ai grandi centri industriali della costa per limiti di rete e congestioni. In passato, l’elettricità eolica e solare è stata spesso “tagliata” (curtailment) perché non c’era capacità di trasmissione o perché i contratti favorivano la generazione da carbone.

2. Accumulo su larga scala
Progetti di stoccaggio – batterie, impianti idroelettrici a pompaggio, sistemi termici – sono in forte crescita, ma non ancora alla scala necessaria per sostituire il carbone nel ruolo di riserva. Alcuni progetti a Gansu, come impianti solari termodinamici con stoccaggio a sali fusi, mostrano la direzione, ma sono ancora eccezioni e non la regola.

3. Riforma del mercato elettrico
Finché le centrali a carbone sono remunerate in base alla potenza disponibile o a ore garantite di funzionamento, gli operatori non hanno un incentivo reale a ridurre al minimo l’uso del carbone e valorizzare davvero la flessibilità offerta dalle rinnovabili. È un tema di regolazione, non solo di tecnologia.

Senza questi tre ingredienti, il carbone resta la soluzione “facile” ogni volta che qualcosa nella rete scricchiola.

Costi nascosti e rischio di lock-in

Dietro la retorica della “sicurezza energetica” c’è un conto che si presenta più avanti.

Le mega-centrali a carbone come Changle significano:

  • Emissioni di CO₂ per decine di milioni di tonnellate l’anno, in una fase storica in cui la finestra temporale per rimanere entro gli obiettivi climatici è sempre più stretta
  • Investimenti immobilizzati per miliardi di dollari in infrastrutture che, se le politiche climatiche si faranno davvero stringenti, rischiano di trasformarsi in stranded assets, impianti “bloccati” che non possono più funzionare come previsto
  • Impatto locale in termini di qualità dell’aria e uso dell’acqua, soprattutto in regioni desertiche dove ogni metro cubo conta.

È il classico trade-off tra presente e futuro: ogni gigawatt di carbone che rende più semplice la gestione della rete oggi rende più complicata – e costosa – la decarbonizzazione di domani.

Se la Cina sbaglia il tempo della transizione

La domanda di fondo, guardando Gansu dal satellite, è quasi brutale: la Cina vuole davvero usare il carbone come “paracadute temporaneo” o sta progettando, consapevolmente o meno, un futuro dove il carbone rimarrà importante ben oltre il 2030–2040?

I segnali sono misti. Da un lato, la crescita delle rinnovabili è definita “senza precedenti” da molte analisi internazionali.
Dall’altro, il ritmo con cui vengono avviati nuovi cantieri a carbone e l’assenza di un piano chiaro di chiusura anticipata delle centrali esistenti suggeriscono un atteggiamento prudente, quasi difensivo.

Se Pechino dovesse sbagliare il tempo della transizione, spingendo troppo a lungo sul carbone per timore di instabilità elettriche, rischierebbe un triplo effetto:

  1. Ritardare il picco delle emissioni, rendendo più ripida e dolorosa la curva di riduzione successiva
  2. Sovraccaricare il sistema economico con il costo di impianti da chiudere prima del tempo o da riconvertire in fretta
  3. Indebolire la sua stessa narrazione geopolitica di superpotenza della transizione, offrendo agli avversari l’argomento perfetto per accusarla di greenwashing.

Uno scenario alternativo: dal carbone “re” al carbone “assicurazione”

C’è però anche uno scenario diverso, che alcuni analisti iniziano a considerare plausibile: quello in cui la Cina, dopo aver costruito “troppo” carbone, ne riduce rapidamente l’utilizzo, trasformando le centrali da motore principale a riserva di emergenza.

In questo scenario, impianti come Changle verrebbero usati sempre meno, solo nei momenti di picco o in condizioni estreme, mentre la crescita di rinnovabili, accumulo e reti intelligenti permetterebbe al sistema di reggere senza problemi.

Non sarebbe la transizione perfetta, ma sarebbe una via d’uscita meno traumatica: il carbone non sparirebbe dall’oggi al domani, ma perderebbe il ruolo di “re” della generazione elettrica e diventerebbe un’assicurazione sempre più rara, sempre più cara.

Perché ciò accada, però, non basta contare i gigawatt di pannelli installati: serve una decisione politica esplicita, soprattutto sul fronte della regolazione del mercato elettrico e della pianificazione delle chiusure.

La lezione di Gansu per la transizione globale

Gansu è un laboratorio. Non solo per la Cina, ma per chiunque stia provando a fare i conti con lo stesso paradosso: espandere le rinnovabili senza fidarsi abbastanza da mollare davvero i combustibili fossili.

Camminando idealmente lungo il corridoio di Hexi, si attraversano tre tempi diversi:

  • il futuro delle turbine e dei parchi solari
  • il presente delle centrali a carbone che tengono in piedi la rete
  • e un passato industriale che non è mai stato davvero archiviato.

Il punto è che questi tre tempi non possono coesistere all’infinito. A un certo momento, uno dei tre, il passato fossile, dovrà cedere il passo, non solo nelle dichiarazioni, ma nelle ore di funzionamento, nei bilanci, nei contratti.

Se la Cina riuscirà a trasformare impianti come Changle da simbolo del ritardo fossile a piattaforma di transizione – usata sempre meno, fino a diventare marginale – avrà scritto una parte decisiva della storia climatica del XXI secolo. Se invece continuerà a costruire e utilizzare carbone come se fosse ancora l’asse portante del sistema, il corridoio di Hexi resterà l’immagine perfetta di un mondo che ha scelto la transizione… ma non fino in fondo.

In definitiva, ciò che succede tra le dune di Gansu non è una storia locale: è uno specchio della domanda che riguarda tutti, Europa compresa. Quanto siamo disposti a fidarci davvero delle rinnovabili e quando decideremo, finalmente, che il vecchio motore a carbone può essere spento, non solo “tenuto acceso per sicurezza”?

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