Crisi energetica in vista: la Bulgaria corre per evitare il blocco della raffineria Lukoil

| 11/11/2025
Crisi energetica in vista: la Bulgaria corre per evitare il blocco della raffineria Lukoil

La Bulgaria entra in allerta: solo un mese di scorte di benzina, sanzioni americane in arrivo e una raffineria — la più grande del Paese — che rischia di fermarsi.

Mentre l’Europa osserva, Sofia corre. Tra decreti, controlli armati e divieti d’esportazione, il governo tenta di salvare l’ossatura energetica nazionale. Ma la partita, stavolta, va oltre i carburanti.

Un conto alla rovescia che brucia

Trentacinque giorni di benzina. Cinquanta di gasolio.
Numeri che, presi così, sembrano quasi rassicuranti. E invece no: in Bulgaria sono diventati la misura esatta della paura.

Le sanzioni statunitensi contro Lukoil scatteranno tra pochi giorni e con esse potrebbe interrompersi la principale fonte di rifornimento del Paese. Non si tratta solo di un problema tecnico, ma di una questione vitale: chi controlla l’energia controlla, in fondo, la vita quotidiana, i trasporti, il riscaldamento, la produzione industriale, tutto.

Il problema è che metà delle scorte bulgare non è neppure in Bulgaria. Giace in depositi di altri Paesi europei, vincolata da contratti e pipeline che presto potrebbero non valere più nulla. Così, mentre i giorni scorrono, il governo cerca disperatamente di anticipare il tempo. Di importare, di stoccare, di sopravvivere.

E c’è qualcosa di ironico e terribile in tutto questo: un Paese membro dell’Unione Europea che, nel 2025, si trova a contare i litri di carburante come se fosse tornato agli anni Settanta.

Il nodo Burgas: un cuore russo nel corpo europeo

La data da segnare è il 21 novembre. Quel giorno le sanzioni americane su Lukoil e Rosneft diventeranno effettive, e la raffineria di Burgas, colosso industriale sulla costa del Mar Nero, potrebbe diventare improvvisamente un gigante congelato.

L’impianto, il più grande dei Balcani, produce oltre la metà dei carburanti del Paese. È un ecosistema a sé: centinaia di stazioni di servizio, oleodotti, terminali portuali. Tutto riconducibile, in ultima istanza, al controllo russo.

È qui che la geopolitica si fa materia concreta. Non più analisi o trattati, ma pompe di benzina che rischiano di restare vuote.
Le banche occidentali non potranno più trattare con la compagnia. Le assicurazioni, forse, ritireranno la copertura. E così anche i trasportatori. In un attimo, un intero sistema potrebbe semplicemente… fermarsi.

Sofia lo sa. E cerca di prendere tempo, di negoziare eccezioni, di salvare almeno il funzionamento minimo. Ma il tempo, come sempre, è la risorsa più volatile di tutte.

Sofia reagisce: misure d’urgenza, divieti e sorveglianza

La risposta bulgara è stata rapida, quasi febbrile.
Un decreto ha bloccato temporaneamente l’esportazione di carburanti, niente più diesel, niente più jet fuel per l’Europa, nel tentativo di trattenere ogni goccia di scorta sul territorio nazionale.

Poi il Parlamento: in poche ore ha approvato una legge che consente allo Stato di prendere il controllo della raffineria di Burgas, gestirla in via straordinaria o venderla a un nuovo proprietario, possibilmente “neutrale”.
Un atto politico che sa di mossa d’emergenza, ma anche di rottura simbolica: la Bulgaria che prova, forse per la prima volta, a liberarsi dal nodo russo che le stringe l’energia da decenni.

Intanto, all’esterno della raffineria, le misure di sicurezza sono diventate quasi militari. Pattuglie armate, droni di sorveglianza, perimetri rafforzati. “Infrastruttura critica”, l’hanno definita le autorità. E in effetti lo è: se Burgas si ferma, si ferma tutto.

Ma questa difesa, pur necessaria, nasconde una verità scomoda: un Paese che deve proteggere con la polizia la propria energia è un Paese che ha perso, almeno in parte, la propria sovranità energetica.

Una dipendenza che arriva da lontano

Il rapporto tra la Bulgaria e Lukoil è antico, quasi sedimentato.
Quando, alla fine degli anni Novanta, il colosso russo rilevò la raffineria di Burgas, l’operazione venne accolta come una garanzia di stabilità: investimenti, tecnologia, posti di lavoro. Per anni, quella scelta sembrò conveniente.

Oggi, invece, è diventata una trappola.
Il Paese ha costruito intorno a Lukoil gran parte della sua infrastruttura petrolifera: porti, serbatoi, stazioni di servizio. Tutto integrato, tutto dipendente.
Ed è proprio questa integrazione, oggi, a rendere difficile la separazione.
Staccare la spina a Lukoil significa riscrivere un intero sistema industriale. Ma non farlo significherebbe restare ostaggio di una compagnia che risponde a logiche geopolitiche, non a quelle di mercato.

Nel frattempo, la Bulgaria si prepara all’adozione dell’euro nel 2026, cercando di presentarsi come un Paese stabile, integrato, moderno. Eppure, sotto la superficie, il suo cuore energetico batte ancora in russo.

Europa, energia e l’ombra lunga della guerra

La crisi bulgara è, in fondo, una piccola radiografia dell’Europa.
Ogni volta che Bruxelles parla di “autonomia strategica”, è di situazioni come questa che dovrebbe occuparsi: Paesi dell’Unione ancora legati a infrastrutture e società che rispondono a Mosca.

La guerra in Ucraina ha accelerato questa consapevolezza. Le sanzioni sono diventate uno strumento di pressione, ma anche un test di coerenza politica: quanto è disposta l’Europa a sacrificare della propria sicurezza economica pur di difendere i suoi principi?

La Bulgaria, oggi, è la cartina di tornasole di questo dilemma. Se riuscirà a gestire la transizione senza blackout, dimostrerà che è possibile spezzare la dipendenza senza collassare.
Se, invece, Burgas dovesse spegnersi, l’effetto domino potrebbe investire non solo Sofia, ma tutta la filiera energetica del Sud-Est europeo.

Tra emergenza e futuro

Il governo bulgaro si muove su un doppio binario: gestire l’immediato e costruire il dopo.
Sul tavolo, nuove rotte di importazione, accordi con fornitori mediorientali e incentivi per attrarre operatori europei nel settore. Tutto, pur di evitare il collasso.

Ma la verità è che non basta cambiare i contratti: serve cambiare la mentalità.
L’energia non può più essere pensata come un bene “dato”, ma come una questione di sicurezza nazionale.
E forse è proprio da qui che la Bulgaria dovrà ripartire: dalla consapevolezza che un Paese energeticamente dipendente è, inevitabilmente, politicamente fragile.

La fine di un’era o l’inizio di una nuova (?)

La crisi di Burgas è solo l’ultimo capitolo di una storia che riguarda tutti noi.
Uno Stato europeo, spinto ai margini della mappa geopolitica, ci mostra cosa accade quando la globalizzazione energetica si incrina.
Eppure, in questa fragilità, c’è anche un potenziale: quello di ripensare tutto da zero.

Se la Bulgaria riuscirà a trasformare l’emergenza in opportunità, potrà diventare un laboratorio di resilienza per l’intera Europa. Se invece fallirà, resterà, come monito, il ricordo di quanto sia breve la distanza tra sicurezza e vulnerabilità, tra autonomia e dipendenza.

L’energia, oggi, non è solo carburante. È potere, identità, libertà.
E a Burgas, in questi giorni sospesi, quella libertà si misura in barili e in ore.

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