La nuova dipendenza: le banche europee e la trappola del dollaro

RedazioneRedazione
| 04/11/2025
La nuova dipendenza: le banche europee e la trappola del dollaro

La dipendenza dal biglietto verde cresce: finanziamenti in dollari al 13,1% e asset al 23% dei bilanci bancari UE. Con tensioni geopolitiche e regole più dure, l’Europa riscopre il suo tallone d’Achille: cosa accade se la liquidità USA rallenta?

La dipendenza dal biglietto verde cresce: finanziamenti in dollari al 13,1% e asset al 23% dei bilanci bancari UE. Con tensioni geopolitiche e regole più dure, l’Europa riscopre il suo tallone d’Achille: cosa accade se la liquidità USA rallenta?

Ci sono dati che, presi singolarmente, non fanno rumore. Poi ci sono quelli che, letti nel contesto, diventano un segnale d’allarme sommesso, ma inconfondibile.
Secondo il nuovo rapporto dell’European Banking Authority (EBA), la quota di finanziamenti in dollari nelle banche europee è salita al 13,1% del totale a dicembre 2024, in aumento rispetto al 12,4% dell’anno precedente.
Non è un salto drammatico, ma il trend sì. Parallelamente, l’esposizione complessiva verso attivi in dollari è cresciuta al 23% dei bilanci bancari, contro il 19,3% di dodici mesi prima.

Dietro queste percentuali si muove una realtà meno visibile: il sistema bancario europeo continua a nutrirsi della liquidità americana, un flusso che negli anni si è trasformato da opportunità a dipendenza.
E quando la dipendenza è finanziaria, il rischio non è la scarsità di capitale — ma la volatilità della fiducia.

Quando la liquidità dipende da Washington

La lezione della storia è sempre la stessa: la liquidità globale non è un bene pubblico, ma un privilegio condizionato.
Nel 2008 e poi nel 2020, quando il mondo tremava, fu la Federal Reserve a fornire dollari al sistema, tramite le swap lines con la BCE e le altre banche centrali.
Funzionò. L’architettura reggeva perché c’era fiducia reciproca.

Oggi, però, la scena è diversa.
La politica commerciale americana si è fatta più assertiva, le tensioni geopolitiche più frequenti, e il messaggio, nemmeno troppo implicito, è che l’America pensa prima a se stessa.
“Le banche dell’area euro potrebbero trovarsi sotto pressione se il finanziamento in dollari dovesse prosciugarsi” ha avvertito Philip Lane, capo economista della BCE.
È una frase tecnica, eppure pesa come un giudizio: l’Europa non controlla la sua linfa vitale.

La faglia invisibile: il “currency mismatch”

Nei bilanci, il problema si nasconde dietro la parola più neutra del mondo: mismatch.
Ma qui il disallineamento è tutt’altro che innocuo.
Oggi, circa un terzo degli attivi bancari dell’Unione Europea è denominato in valuta estera, soprattutto dollari. Le passività, invece, lo sono solo per un quinto.
È come correre con due gambe di lunghezza diversa. Finché il terreno è piano, si va avanti. Ma basta un dislivello — una crisi di fiducia, una variazione di cambio — e l’equilibrio si spezza.

Le banche, certo, coprono parte del rischio con derivati e hedging sofisticati.
Ma le coperture costano. E, soprattutto, si dissolvono nei momenti di stress, quando i mercati più servirebbero.
Il risultato? Una fragilità strutturale mascherata da ingegneria finanziaria.

Dove cresce di più la fame di dollari

L’EBA ha notato che l’aumento dell’esposizione è stato particolarmente forte nelle operazioni di finanziamento titoli (SFT) e nel funding wholesale non garantito.
Settori ad alto rendimento, sì, ma anche altamente volatili.
E il dettaglio più significativo, quasi inquietante, è che le filiali estere delle banche europee stanno aumentando l’uso del dollaro a un ritmo ancora più rapido delle capogruppo.

È un segnale di tensione centrifuga: il rischio si frammenta.
Le controllate si finanziano localmente in dollari per operare su mercati globali, ma in caso di crisi la casa madre deve correre in soccorso.
È un gioco pericoloso, perché il gruppo appare solido nella visione consolidata, ma è disallineato nel dettaglio.
Il rischio sistemico, oggi, non è nei grandi numeri. È nelle micro-crepe che nessuno vede finché non si allargano.

NSFR in valuta: un termometro che scotta

Un altro segnale che non va ignorato arriva dal Net Stable Funding Ratio (NSFR).
L’EBA ha segnalato che alcune banche hanno un NSFR inferiore al 100% in dollari, cioè non dispongono di una base stabile di funding a lungo termine sufficiente a sostenere le attività in quella valuta.
Non è una violazione delle regole generali, ma un avvertimento silenzioso: il sistema regge finché si guarda all’aggregato, ma scricchiola se si osservano le singole valute.

Il Fondo Monetario Internazionale lo ha detto con chiarezza: “Attenzione ai currency gaps nei requisiti di funding stabile, se non adeguatamente coperti da hedging o riserve”.
In altre parole, la stabilità finanziaria non è un numero unico. È una somma di equilibri parziali, e il dollaro, per peso e per ciclo, è quello più fragile di tutti.

Geopolitica e credito: il potere silenzioso del biglietto verde

Il dollaro non è solo una valuta. È un’arma geopolitica, un simbolo e una rete di controllo.
Oggi l’80% del commercio internazionale e oltre la metà dei prestiti transfrontalieri sono ancora denominati in dollari.
Le banche europee lo sanno bene: finanziare in euro è più costoso, più lento, meno profondo.
Il mercato americano resta il più liquido, i titoli del Tesoro USA il collateral perfetto, e il dollaro, nonostante tutto, la lingua franca della finanza globale.

Ma questa “efficienza globale” nasconde un prezzo: la dipendenza politica.
In un contesto in cui Washington usa la finanza come leva diplomatica — sanzioni, controlli sui capitali, dazi — la vulnerabilità europea diventa anche una questione di sovranità economica.

Il paradosso: efficienza oggi, fragilità domani

Nel breve termine, i finanziamenti in dollari migliorano i margini e la redditività: spread più ampi, rendimenti maggiori, leva più facile.
Ma nel lungo periodo, questa efficienza si trasforma in fragilità.
Quando la liquidità si restringe, i costi di rifinanziamento esplodono, gli spread si allargano e i margini evaporano.

È un equilibrio ingannevole: più il sistema diventa sofisticato, più si espone al rischio di incepparsi.
E in un mondo dove la velocità delle crisi è ormai digitale, il tempo per reagire è infinitamente più breve.
L’errore, oggi, non è tecnico. È temporale.

Cosa può (davvero) fare l’Europa

Le soluzioni esistono, ma richiedono coraggio politico e disciplina tecnica.
Primo: rafforzare la vigilanza per valuta, non solo in aggregato. Stress test mirati, simulazioni di scarsità di dollari, misurazioni del rischio di liquidità per entità e per valuta.
Secondo: costruire un mercato dei capitali dell’UE profondo e integrato, con un safe asset comune che possa competere con i Treasury americani.
Terzo: formalizzare accordi permanenti di swap line con la Fed, non su base emergenziale, ma strutturale.

E, soprattutto, serve un cambio culturale: la sovranità finanziaria non è un concetto astratto, è la capacità di garantire liquidità quando il mondo trema.

La sovranità che manca

L’aumento dell’esposizione in dollari è la fotografia di una realtà incompiuta.
A venticinque anni dall’introduzione dell’euro, l’Europa ha una moneta, ma non un mercato dei capitali integrato.
Ha una Banca Centrale, ma non un Tesoro comune.
Ha regole sofisticate, ma nessuna rete profonda di liquidità domestica.

Così, le sue banche, anche le più grandi, continuano a respirare dollari.
E finché questo respiro dipenderà da un sistema esterno, l’autonomia economica resterà un progetto incompiuto.

Il futuro è una questione di ossigeno

Alla fine, tutto si riduce a una domanda semplice: di cosa è fatta la sovranità in un mondo finanziario interconnesso?
Non di confini, ma di liquidità.
Non di bandiere, ma di accesso stabile ai capitali in ogni condizione di mercato.

L’EBA ha acceso una spia che molti preferirebbero ignorare. Ma le crisi, di solito, iniziano così: con dati apparentemente tecnici e un disagio che cresce sotto la superficie.
Il dollaro è ancora il polmone del sistema finanziario europeo.
E finché lo sarà, la vera questione non sarà se arriverà un nuovo shock, ma quanto a lungo riusciremo a respirare senza ossigeno nostro.

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