Pensioni in Italia, il grande paradosso: l’età più alta d’Europa, le carriere più brevi

RedazioneRedazione
| 03/11/2025
Pensioni in Italia, il grande paradosso: l’età più alta d’Europa, le carriere più brevi

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L’Italia alza l’età per la pensione, fino a 70 anni nel 2067, ma resta penultima in Europa per durata della vita lavorativa. Tra ritardi d’ingresso, carriere spezzate e lavoro irregolare, si nasconde la vera fragilità del sistema previdenziale.

Il paradosso italiano: lavorare più tardi, lavorare meno

L’Italia si prepara a un futuro di pensioni sempre più lontane. Oggi l’età per la pensione di vecchiaia è fissata a 67 anni, ma entro il 2067 salirà a 70. Fin qui, nulla di inatteso: la popolazione invecchia, i bilanci pubblici devono reggere.
Eppure, i dati raccontano una realtà che stride con la logica economica: la durata effettiva della vita lavorativa è tra le più basse in Europa. Si lavora poco e si comincia tardi.
Non è un paradosso da convegno, ma una distorsione strutturale: un sistema che pretende più anni di lavoro da persone che, nei fatti, non riescono ad accumularne abbastanza.
Il problema non è tanto “quando si esce”, ma “quanto si riesce davvero a lavorare”. Dietro l’apparente rigore dei numeri c’è una fragilità sociale che si trascina da generazioni.

I numeri che smontano la narrazione

Eurostat fotografa ogni anno la vita lavorativa attesa, ossia quanti anni un quindicenne può sperare di trascorrere nel mercato del lavoro.
La media europea è di 37,2 anni, ma l’Italia si ferma a 32,8: quasi cinque anni in meno. Peggio di noi solo la Romania (32,7).
In cima alla classifica troviamo Svezia, Danimarca e Paesi Bassi, dove si superano spesso i 40 anni di lavoro effettivo.
Dietro questi dati non ci sono solo differenze di produttività: c’è un modello sociale diverso.
Nei Paesi del Nord, scuola e impresa dialogano, l’ingresso è rapido, la stabilità è reale. Da noi, invece, il percorso è lungo, tortuoso, spesso precario.
Una contraddizione che incide non solo sulle pensioni, ma sulla stessa percezione del lavoro: da motore di identità collettiva a percorso a ostacoli.

L’ingresso tardivo: il collo d’imbuto che frena un’intera generazione

Il primo freno è l’accesso al lavoro.
In Italia, l’età media di ingresso stabile nel mercato è oltre i 29 anni. Un ritardo che pesa per sempre.
I percorsi universitari si prolungano, gli stage si moltiplicano, i tirocini diventano routine.
Molti giovani restano sospesi in una zona grigia: “occupati, ma non ancora lavoratori veri”.
Ogni anno perso in questa fase è un frammento di pensione futura che evapora.
Eppure, la politica continua a parlare di “flessibilità” come se fosse sinonimo di opportunità. Ma la flessibilità senza tutele è un inganno lessicale: precarizza, non emancipa.
Paesi come la Germania hanno investito su sistemi duali scuola-lavoro: l’Italia no. Qui, il primo contratto a tempo indeterminato è un traguardo più che un punto di partenza.

Carriere frammentate: la linearità scomparsa

Una volta entrati, la stabilità resta un miraggio.
Le carriere italiane sono fatte di pause, transizioni, interruzioni.
La mobilità è diventata sinonimo di vulnerabilità: cambiare lavoro significa spesso ricominciare da zero.
Nel tempo, questa discontinuità logora: si perdono anzianità, si disperdono competenze, si erodono contributi.
E quando la pensione arriva è più leggera.
La retorica della “flessibilità virtuosa” nasconde una realtà più aspra: quella di un esercito di lavoratori che alterna occupazione, inattività e formazione, spesso senza prospettiva di crescita.
Nel lungo periodo, ciò genera un danno collettivo: un sistema che contribuisce meno, costa di più e produce diseguaglianze crescenti.

Lavoro nero: la zavorra invisibile

Il lavoro sommerso resta una ferita aperta.
Secondo le ultime stime, l’economia irregolare in Italia vale oltre il 9% del Pil e coinvolge circa 3 milioni di persone.
Dietro questi numeri si nascondono vite sospese: badanti senza contratto, stagionali non registrati, artigiani “a giornata”.
Ogni ora non dichiarata è un’ora rubata alla pensione.
Lavorare in nero non è solo una scorciatoia: è una rinuncia.
Nel breve periodo può sembrare conveniente; nel lungo distrugge il diritto alla sicurezza economica.
Un’economia moderna non può crescere su basi invisibili.
Ogni euro sottratto al fisco e all’INPS si traduce in meno servizi, meno equità, meno futuro.

Donne e lavoro: il più grande divario d’Europa

Se c’è un punto che fotografa la fragilità del sistema è il lavoro femminile.
In Italia le donne lavorano in media 28,2 anni, contro i 37,1 degli uomini: nove anni di differenza, il divario più alto dell’Unione Europea.
Non è una scelta, ma un obbligo implicito.
La carenza cronica di servizi per l’infanzia, il tempo pieno scolastico limitato, la rigidità degli orari e la cultura della presenza rendono difficile conciliare lavoro e vita familiare.
Molte escono, poche rientrano.
In Estonia o Lituania, al contrario, la durata della carriera femminile supera persino quella maschile.
Ogni anno perso da una donna è un punto di Pil mancato e un contributo in meno al sistema.
L’Italia, da questo punto di vista, continua a trattare il lavoro femminile come un’opzione, non come una necessità nazionale.

Nord e Sud: due economie che non si sfiorano

L’Italia non è un solo mercato del lavoro: è una somma di ecosistemi distanti.
Al Nord, l’industria e i servizi avanzati garantiscono continuità e redditi più stabili; al Sud prevale un’economia intermittente, legata a stagionalità, turismo e microimprese.
Nel Mezzogiorno, i periodi di inattività sono più lunghi, i contratti più brevi, il lavoro nero più diffuso.
Il risultato è un divario che si allarga: a Milano si accumulano anni contributivi pieni, a Reggio Calabria si sopravvive tra impieghi irregolari.
Finché queste due Italie non si ricompongono, ogni media nazionale sarà una maschera statistica.
Il sistema previdenziale, per funzionare, ha bisogno di una base occupazionale solida e omogenea. Oggi non ce l’ha.

L’eredità dei prepensionamenti: il peso del passato

Sullo sfondo resta la memoria lunga di un sistema generoso con alcuni e rigido con altri.
Oggi si contano oltre 16 milioni di prestazioni pensionistiche, secondo l’ultimo Rapporto del Centro Studi Itinerari Previdenziali, che analizza ogni anno i flussi e gli equilibri del sistema.
Di queste, circa 400 mila persone percepiscono la pensione da oltre quarant’anni.
Molti appartengono alla stagione dei cosiddetti “baby pensionati”, usciti dal lavoro dopo pochi anni di contribuzione.
Erano altri tempi, altre regole. Ma il costo di quelle scelte lo paghiamo ancora oggi.
Il passato continua a drenare risorse in un presente che non riesce a garantire carriere piene alle nuove generazioni.
È la fotografia di un Paese che ha speso troppo per chi è uscito presto e troppo poco per chi non è mai entrato davvero.

Cosa fanno meglio gli altri

Guardare all’Europa serve, se lo si fa senza complessi.
Nei Paesi con le carriere più lunghe, come Svezia, Olanda, Germania, ci sono meccanismi che funzionano perché si parlano tra loro: scuola, imprese, sindacati, Stato.
L’ingresso è rapido, la continuità è premiata, la formazione è parte integrante del contratto di lavoro.
Nessuno promette pensioni miracolose: si investe su competenze, stabilità e produttività.
Il lavoro diventa così un percorso coerente, non un mosaico di esperienze precarie.
E quando si arriva alla pensione, non è un salto nel buio, ma una transizione naturale.
È questa la vera differenza: in quei Paesi, la previdenza è una conseguenza del lavoro, non una compensazione della sua assenza.

La matematica (amara) dei conti italiani

Innalzare l’età pensionabile senza allungare la vita lavorativa effettiva è come spostare in avanti la fine di una corsa senza aggiungere benzina.
Il sistema regge solo se chi lavora contribuisce abbastanza, abbastanza a lungo.
Ma oggi la base contributiva si restringe, i redditi stagnano e i costi previdenziali crescono con la longevità.
Si crea così un circolo vizioso: meno contributi, più spesa, più debito.
A pagarne il prezzo saranno i giovani, quelli che oggi faticano a entrare.
La sostenibilità non è un numero, è una fiducia collettiva. E quando le persone non credono più che versare oggi garantisca qualcosa domani, il sistema si incrina.


Le sette leve per cambiare davvero

  1. Accorciare l’età di ingresso: rafforzare l’apprendistato duale, legare l’università ai fabbisogni reali del mercato, premiare le imprese che assumono under 25 a tempo indeterminato.
  2. Stabilizzare senza paura: decontribuzione strutturale sulle trasformazioni, limiti seri ai contratti a termine ripetuti.
  3. Politiche attive che funzionano: profilazione individuale, formazione breve, servizi pubblici per l’impiego moderni e digitali.
  4. Occupazione femminile come priorità nazionale: asili diffusi, tempo pieno scolastico obbligatorio, incentivi fiscali per aziende “gender balanced”.
  5. Lotta all’irregolare: incrocio dati, premi a chi emerge, penalità reali per chi sfrutta.
  6. Formazione permanente: diritto soggettivo all’apprendimento, crediti formativi portabili e utilizzabili per tutta la carriera.
  7. Uscite ordinate: anticipo solo per lavori usuranti, part-time senior e incentivi a chi resta.

Non servono nuove sigle: serve coerenza. La riforma non è una legge, ma una cultura.

2050–2067: lo scenario che deciderà chi siamo

Se non si interviene, il 2067 ci troverà con pensioni a 70 anni e vite lavorative da 33.
Un sistema più anziano, più povero e più ingiusto.
Ma il futuro non è scritto: si può invertire la curva.
Un ingresso rapido, più occupazione femminile, meno irregolare, più continuità e il quadro cambia.
Il punto non è lavorare di più, ma lavorare meglio e prima.
Rendere la carriera un percorso continuo, non una corsa a ostacoli.
Solo così la previdenza torna a essere un diritto sostenibile e non una promessa svuotata.

L’età che conta davvero

Si può discutere se andare in pensione a 67, 68 o 70 anni. Ma la vera età che conta è quella della fiducia: quella che misura quanto crediamo nel patto tra lavoro e dignità.
Un Paese che promette uscite tardive, ma offre carriere brevi non è rigoroso: è incoerente.
Le riforme non servono a cambiare i numeri, ma a cambiare le traiettorie.
Anticipare l’ingresso, stabilizzare il percorso, valorizzare il lavoro femminile, ridurre l’irregolare: questa è la riforma che manca.
Non è un sogno, è manutenzione della realtà.
E se tra vent’anni qualcuno rileggerà queste righe, non dovrà più chiedersi “perché avete aspettato?”, ma potrà dire: “finalmente abbiamo cominciato”.

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