Social e minori: in Italia la prima class action contro Meta e TikTok

RedazioneRedazione
| 02/10/2025
Social e minori: in Italia la prima class action contro Meta e TikTok

Quando i genitori dicono basta. Un’azione civile senza precedenti per difendere l’infanzia digitale.

Un atto di rottura nel silenzio dei social

Era solo questione di tempo.
Nel Paese dei sessanta milioni di abitanti e dei novanta milioni di account social, qualcosa doveva accadere.
Il Moige – Movimento Italiano Genitori Aps, insieme a un primo gruppo di mamme e papà, sostenuti dallo studio legale Ambrosio & Commodo, ha deciso di passare dalle petizioni alle aule di tribunale.
Il risultato? La prima class action inibitoria italiana contro Meta e TikTok, depositata a luglio al Tribunale di Milano (registro generale 29994/2025).
Un ricorso che non chiede risarcimenti, ma una cosa più radicale: fermare pratiche ritenute dannose e illegali.
L’udienza è fissata per il 12 febbraio 2026.
Ma, di fatto, il processo, quello morale e pubblico, è già cominciato.

Un Paese iperconnesso che ha smarrito la misura

L’Italia è un laboratorio di contraddizioni.
Abbiamo la banda più veloce d’Europa, ma anche dodicenni che scorrono reel fino alle tre di notte.
I numeri parlano da soli: più profili social che persone, compresi neonati e nonni.
Dietro questa iperconnessione c’è un senso di smarrimento: gli strumenti che dovevano unire stanno modellando comportamenti, abitudini, perfino desideri.
E la generazione che dovrebbe essere la più protetta è, paradossalmente, la più esposta.

“Non bastano filtri e parole”

Durante la conferenza di presentazione, il direttore generale del Moige, Antonio Affinita, ha usato parole che suonano come un avvertimento:

“Abbiamo chiesto più volte ai gestori delle piattaforme di intervenire. Non è accaduto.
E mentre loro parlano di sicurezza digitale, i nostri figli vengono trascinati in meccanismi che generano ansia, isolamento, dipendenza”.

Affinita non usa giri di parole. Per lui, l’azione legale non è simbolica, ma necessaria: “Gli algoritmi non sono neutri. Sanno chi sei, cosa guardi, quanto resti. E se sei fragile, ti colpiscono di più”.

Il Moige, che da oltre venticinque anni lavora sulla prevenzione dei rischi online, ha deciso di portare la questione dalle aule scolastiche alle aule giudiziarie.
Un salto di scala, certo. Ma anche un atto di esasperazione collettiva.

La leva giuridica: un articolo che può cambiare la storia

L’azione si fonda sull’articolo 840-sexiesdecies del codice di procedura civile, entrato in vigore nel 2021.
Una norma poco conosciuta, ma rivoluzionaria: consente di chiedere a un giudice di inibire comportamenti lesivi a danno di una pluralità di soggetti.
Non una causa per soldi, ma per fermare un danno sistemico.

L’avvocato Stefano Commodo, che ha guidato il team legale, lo racconta con prudente soddisfazione: “Abbiamo lavorato due anni. Giuristi, ingegneri informatici, neuropsichiatri. Abbiamo studiato come gli algoritmi interagiscono con la mente dei minori, come creano dipendenza. Il diritto, per una volta, non rincorre la tecnologia: la raggiunge”.

Se il tribunale accoglierà la richiesta, Meta e TikTok potrebbero essere obbligate a rivedere i propri algoritmi di raccomandazione. Un precedente che, in Europa, ancora non esiste.

Gli algoritmi sotto accusa

Nel cuore del ricorso c’è una tesi potente: le piattaforme non proteggono i minori, li espongono.
I contenuti che generano engagement – sfide pericolose, modelli estetici tossici, video estremi – vengono amplificati.
Il sistema non distingue ciò che attrae da ciò che ferisce.
E così, nel tentativo di tenere l’utente connesso, l’algoritmo finisce per spingerlo sempre più in basso.

In questo senso, la causa non riguarda solo la privacy o la pubblicità, ma la salute mentale e comportamentale di una generazione.
Una questione che tocca il modello di business stesso dei social network: guadagnare più tempo d’attenzione possibile, a qualunque costo.

Una battaglia che parla anche all’Europa

Il caso italiano si inserisce in un movimento globale.
Negli Stati Uniti, più di quaranta procure hanno denunciato Meta per i danni causati agli adolescenti.
Nel Regno Unito, la Children’s Commissioner chiede da mesi di rendere pubblici gli algoritmi che influenzano i minori.
L’Unione Europea, con il Digital Services Act, impone alle piattaforme la valutazione del “rischio sistemico”.
Ma l’Italia, con questa iniziativa, è la prima a muoversi con un’azione collettiva e giudiziaria mirata alla tutela dei minori.

Un segnale forte: la società civile non aspetta più le istituzioni, ma agisce direttamente.

Oltre la legge: una questione di coscienza

Le piattaforme parlano di “community guidelines”, di parental control, di filtri per l’età.
Ma basta guardare i feed dei ragazzi per capire che la realtà è un’altra: nessun controllo funziona davvero.
E allora la domanda diventa più ampia: fino a che punto una società può accettare che l’infanzia venga modellata da logiche di mercato e non da valori educativi?

La battaglia del Moige non è solo un atto giuridico.
È una richiesta di trasparenza e responsabilità in un ecosistema che, da troppo tempo, opera senza bilanci morali.

Verso il 2026: il tribunale e l’opinione pubblica

L’udienza del 12 febbraio 2026 sarà il banco di prova.
Ma, qualunque sia l’esito, qualcosa è già cambiato.
La semplice possibilità di portare in giudizio le multinazionali del web segna un cambio di paradigma.
Il diritto, spesso lento, questa volta ha deciso di farsi trovare al traguardo.
E non per punire, ma per proteggere.

Dal digitale all’umano

Nel fondo, la questione non riguarda Meta o TikTok, ma noi.
Che genitori vogliamo essere?
Che società vogliamo costruire per chi oggi ha dieci anni e cresce in uno spazio digitale senza limiti, senza pause, senza pietà?

Il caso Moige contro i social non è un episodio isolato: è un punto di svolta culturale.
Ricorda che la tecnologia non è destino, è una scelta.
E che ogni scelta, soprattutto quando riguarda i bambini, ha un costo etico che non può essere delegato agli algoritmi.

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