TotalEnergies e Siemens guidano la rivolta industriale contro la legge simbolo del Green Deal

RedazioneRedazione
| 13/10/2025
TotalEnergies e Siemens guidano la rivolta industriale contro la legge simbolo del Green Deal

Bruxelles difende l’ambizione etica della transizione, ma una parte dell’industria alza la voce: “troppa burocrazia, troppo svantaggio competitivo rispetto a Stati Uniti e Cina”. La lettera dei 46 CEO apre un caso politico europeo.

TotalEnergies e Siemens chiedono di abolire la direttiva UE sulla due diligence di sostenibilità e sollecitano regole più morbide su emissioni e concorrenza. Per l’Europa è un bivio: preservare la leadership valoriale o riaccendere il motore industriale senza perdere credibilità climatica.

Un fronte inedito che sposta l’asse del dibattito

Quando due colossi come TotalEnergies e Siemens mettono la firma sotto una richiesta radicale — abolire la Corporate Sustainability Due Diligence Directive (CSDDD) — il dibattito esce dalle pagine tecniche e diventa politica industriale allo stato puro. La lettera, indirizzata a Emmanuel Macron e Friedrich Merz a nome di 46 grandi aziende, non contesta la sostenibilità in sé; contesta un impianto normativo considerato costoso, complesso e poco allineato alla competizione globale. Il messaggio ai governi è chirurgico: meno burocrazia, più crescita, più realismo. Ed è un messaggio che arriva nel momento in cui il Green Deal cerca di trasformarsi da cornice identitaria a motore di investimenti.

Il cuore della contesa: dal principio etico alla praticabilità

La CSDDD, adottata nel 2024, impone alle imprese di individuare e correggere violazioni ambientali e dei diritti umani lungo l’intera filiera, con sanzioni fino al 5% del fatturato globale. Il principio è difficilmente attaccabile; l’applicazione, dicono i firmatari, rischia di diventare un labirinto amministrativo. Catene di fornitura che attraversano continenti, subcontracting multipli, dati difficili da certificare: l’onere di conformità può divorare risorse che dovrebbero andare su innovazione di processo e prodotto. Di fatto, molte aziende temono che la direttiva trasformi la responsabilità in compliance difensiva, premiando chi compila moduli meglio di chi riduce davvero l’impatto.

Competitività, asimmetrie e il triangolo USA–Cina–UE

Sul fondo scorre una frattura strategica. Gli Stati Uniti incentivano a colpi di politiche industriali e credito d’imposta, la Cina pianifica con scala e integrazione pubblico–privata; l’Europa regola. Totale caricatura? Forse. Ma la percezione conta: se l’industria europea avverte asimmetria di strumenti, il rischio non è ideologico, ma operativo — investimenti che slittano, ricerca che migra, filiere che si accorciano altrove. Qui la richiesta di abolizione della CSDDD diventa un grimaldello per ottenere un riequilibrio dell’agenda: meno vincoli procedurali, più capitali su energia, manifattura avanzata, digitalizzazione.

Oltre la CSDDD: emissioni e concorrenza nel mirino

La lettera non si ferma alla due diligence. Chiede di non anticipare il taglio dei permessi gratuiti alle industrie energivore e di riformare le regole antitrust considerando i mercati globali, non solo europei. Tradotto: non indebolire l’industria prima che le alternative siano mature e consentire fusioni di scala quando il competitor reale non è a Lione o Düsseldorf, ma a Shenzhen o in California. È la rivendicazione di un realismo industriale che accetta la transizione, ma pretende tempi, strumenti e arbitri compatibili con il campo di gioco.

Bruxelles tra revisione e tenuta politica

Le istituzioni europee hanno già aperto alla semplificazione: soglie più alte, criteri più chiari, armonizzazione tra Stati membri. Ma abolire è un’altra cosa. Per la Commissione, cedere sull’impianto sarebbe un cedimento simbolico del progetto europeo: l’idea che competitività e responsabilità possano convivere. La mediazione, se arriverà, dovrà reggere a due fuochi: ONG e Parlamento, contrari a svuotare la riforma; governi e industria, preoccupati per cicli economici deboli e rischi di de–industrializzazione. La domanda è se l’Europa saprà scrivere una norma più semplice senza svuotarne il senso.

Il costo nascosto della complessità

C’è un elemento meno visibile, ma decisivo: il costo opportunità. Ogni euro speso per audit, consulenze e rendicontazioni sottratto a capex produttivi, R&S e upskilling è un euro che non rafforza la base industriale. Nessuno chiede carta bianca, ma proporzionalità: requisiti calibrati per rischio e dimensione, meccanismi di mutuo riconoscimento per evitare duplicazioni, piattaforme digitali condivise per ridurre gli oneri. La sostenibilità efficace è quella verificabile a costi ragionevoli; la sostenibilità impossibile alimenta cinismo e arbitraggio normativo.

Etica, mercato e la questione identitaria europea

La disputa, in realtà, tocca l’identità dell’UE. L’Europa è soft power regolatorio e potenza industriale in egual misura? Può essere norma per il mondo e, allo stesso tempo, fabbrica di tecnologie pulite? Il rischio è la polarizzazione: principio contro profitto, ONG contro imprese. È una falsa dicotomia. Senza industria forte non c’è transizione credibile, e senza tutela di diritti e ambiente non c’è licenza sociale a operare. L’arte di governo sta nel costruire ponti, non muri: meno oneri inutili, più tracciabilità intelligente, standard europei esportabili.

Un compromesso che valga la pena

La via d’uscita non è l’abolizione secca né la difesa d’ufficio. È un patto di nuova generazione: responsabilità chiara sugli anelli critici della filiera, sanzioni proporzionate, sandbox regolatori per sperimentare strumenti digitali di due diligence, cooperazione internazionale per condividere standard e verifiche nei Paesi terzi. L’obiettivo non è fare meno, ma fare meglio: spostare la fatica dalla carta alla misura dell’impatto reale, premiando chi riduce emissioni, consuma meno risorse, tutela lavoro e comunità.

Cosa succede adesso

Nei prossimi mesi peseranno tre variabili. La prima è politica: fino a che punto Francia e Germania spingeranno per allentare la presa e quale fronte si verrà a creare in Consiglio e Parlamento. La seconda è industriale: se l’Europa riuscirà a far atterrare piani concreti su energia, semiconduttori, mobilità elettrica, mostrando che la competitività non è una parola d’ordine ma cantieri aperti. La terza è finanziaria: flussi di capitale e costo del denaro, perché la sostenibilità senza investimenti è retorica, e l’industria senza credito è immobilità.

Dalla governance alla grandezza (senza perdere l’anima)

La lettera dei 46 non è un ripudio della sostenibilità; è un promemoria ruvido: senza base produttiva non c’è agenda verde che regga. La sfida per l’Europa è uscire dalla contrapposizione sterile tra principio e potere trasformandola in vantaggio competitivo: norme chiare, poche, ma esigenti; misurazione dell’impatto, non rituali di compliance; mercati più grandi, non più frammentati.
Se l’Unione saprà riprogettare la propria architettura regolatoria con la stessa ambizione con cui ha immaginato il Green Deal, potrà tornare a essere laboratorio di progresso e non solo laboratorio di regole. Altrimenti, resterà virtuosa, ma periferica: un continente che dice come dovrebbe essere il futuro mentre altri lo costruiscono. La scelta è adesso ed è più che normativa: è civile e industriale insieme.

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