Il giudizio delle macchine: dove finisce il linguaggio e comincia la conoscenza

Giovanni Di TrapaniGiovanni Di Trapani
| 06/10/2025
Il giudizio delle macchine: dove finisce il linguaggio e comincia la conoscenza

Nel dibattito pubblico sull’intelligenza artificiale c’è un errore che si ripete con ostinazione: continuare a chiedersi se i modelli linguistici “pensino”, come se avessero una mente nascosta da svelare o una coscienza in attesa di emergere.
È un interrogativo suggestivo, ma fuorviante.

Il cuore della questione non riguarda la mente, bensì il giudizio. Non cosa le macchine sono, ma come giudicano. Non la loro eventuale coscienza, ma il modo in cui trasformano la complessità del linguaggio in una forma di decisione apparentemente razionale.

Un modello linguistico di grandi dimensioni (LLM) non pensa, nel senso umano del termine, ma valuta incessantemente: soppesa miliardi di occorrenze, confronta contesti, calcola probabilità di continuità semantica. Il suo “giudizio” è il prodotto di un processo di ottimizzazione statistica, non di comprensione. Ogni parola è la conseguenza di un calcolo di verosimiglianza, non il frutto di un’interpretazione. Eppure il risultato ci appare credibile, spesso convincente, perché si presenta nella forma che associamo all’intelligenza: il linguaggio articolato, coerente, fluido. È proprio questa sovrapposizione tra forma e senso che genera l’illusione più profonda del nostro tempo digitale: credere che la coerenza equivalga alla conoscenza.

Un algoritmo non comprende ciò che elabora, ma costruisce una superficie linguistica di plausibilità. È un sapere senza mondo, un sapere che non deriva dall’esperienza ma dalla combinazione. Dove l’essere umano apprende attraverso il contatto con la realtà e la relazione con gli altri, il modello apprende da sequenze di testo che riflettono il modo in cui noi descriviamo quella realtà. È una conoscenza derivata, non vissuta. E come ogni conoscenza derivata, rischia di confondere la riproduzione del significato con la sua generazione. Per questo l’AI può simulare un giudizio ma non fondarlo: manca il legame tra la parola e l’esperienza, tra il segno e il mondo.

In questa distanza si annida una crisi epistemica che è tutta nostra. Abbiamo imparato a fidarci di testi che “suonano veri”, dimenticando che la verità non risiede nella loro armonia linguistica ma nella corrispondenza con un contesto, un metodo, una fonte. È un mutamento sottile, ma radicale: l’atto del giudicare – che per secoli ha definito l’autonomia del pensiero umano – si trasforma in un atto di riconoscimento passivo. Non cerchiamo più di capire, ma di farci restituire una spiegazione. Non interroghiamo, ma confermiamo. Così la macchina, che non sa di giudicare, finisce per giudicare al nostro posto.

Il rischio più grande non è che l’AI sbagli, ma che noi rinunciamo a chiederci perché sbaglia. L’errore algoritmico, per definizione, non è mai intenzionale: è un difetto di criterio, non di volontà. Ma quando l’essere umano ne assume il risultato come affidabile, quell’errore diventa un’interpretazione del mondo. Da qui l’urgenza di un nuovo lessico della responsabilità cognitiva. Non basta parlare di “bias”, di “allineamento dei valori” o di “trasparenza dei modelli”. Occorre interrogarsi sui criteri stessi del giudizio automatizzato: cosa significa valutare quando non esiste un soggetto che comprenda il senso di ciò che valuta?

L’allineamento tra umano e macchina non è una questione di etica astratta, ma di epistemologia concreta. Il modello opera su una logica di aderenza statistica: seleziona la risposta più probabile, non quella più fondata. L’essere umano, invece, si muove in uno spazio di senso dove la conoscenza implica un rapporto con la verità, anche quando è parziale o incerta. Quando questi due criteri divergono – plausibilità contro verità – il risultato è una frattura cognitiva: la macchina produce coerenza senza comprensione, e noi la scambiamo per giudizio.

La vera sfida, dunque, non è rendere le macchine più simili a noi, ma preservare la nostra capacità di distinguere. Significa riconoscere che la comprensione non è una funzione computabile, ma un atto situato, contestuale, relazionale. Significa anche accettare che la tecnologia, per quanto raffinata, non potrà mai sostituire la parte più fragile e più umana del sapere: quella che nasce dal dubbio, dall’ambiguità, dall’esperienza condivisa. Non dobbiamo temere che le macchine inizino a pensare: dobbiamo preoccuparci del momento in cui smetteremo di farlo noi. Quando la plausibilità prenderà il posto della verità, e la fluidità linguistica si farà sinonimo di giudizio, la conoscenza perderà il suo fondamento. Allora non avremo costruito un’intelligenza artificiale, ma una coscienza automatica del mondo: lucida, efficiente, e completamente priva di senso.

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