Il paradosso della sanità italiana: hub mondiale nelle scienze della vita, fragile in casa

| 03/10/2025
Il paradosso della sanità italiana: hub mondiale nelle scienze della vita, fragile in casa

L’Italia eccelle nella ricerca e nella produzione di farmaci e dispositivi, ma il Servizio Sanitario Nazionale è sotto pressione: fuga di professionisti, accessi diseguali, investimenti insufficienti in prevenzione. Tra dazi USA, invecchiamento, cronicità e la promessa dell’IA, la via d’uscita passa da una Strategia nazionale sulle Scienze della Vita e da un cambio di passo nella governance.

L’immagine è potente e contraddittoria. Da un lato stabilimenti farmaceutici che raddoppiano la produzione in dieci anni, laboratori che attraggono studi clinici e capitali, una filiera dei dispositivi medici che genera occupazione qualificata. Dall’altro, reparti che faticano a coprire i turni, liste d’attesa, migrazioni sanitarie tra regioni, professionisti stanchi che cercano altrove reddito, tempo e riconoscimento. Il nuovo rapporto In-Salute dell’Istituto per la Competitività (I-Com) ci mette davanti allo specchio: l’Italia può diventare un hub strategico globale della salute, ma in casa propria il sistema scricchiola. La differenza tra leadership e declino dipenderà da tre scelte: prevenzione, innovazione e valorizzazione del capitale umano.

Un Paese a doppia velocità

Il perimetro è chiaro. L’industria delle life sciences corre: 54 miliardi di euro di produzione farmaceutica (circa il 2% del PIL), un’industria dei dispositivi che vale 12,4 miliardi sul mercato interno e 6,9 miliardi di produzione, oltre 200 mila addetti. Sul fronte pubblico, però, il SSN mostra fragilità strutturali: nonostante la Legge di Bilancio porti il Fondo Sanitario a 142,3 miliardi nel 2026, l’Italia continua a investire meno di altri grandi Paesi europei in rapporto al PIL. I Livelli Essenziali di Assistenza restano disomogenei, la mobilità sanitaria interregionale aumenta e la spesa è sbilanciata sull’ospedale (quasi il 70%), quando la domanda reale chiederebbe più territorio, prossimità e presa in carico.

Prevenzione: il rendimento che continuiamo a sottovalutare

Se esistesse un asset con ROI fino a 16 euro per ogni euro investito, non esiteremmo. Eppure, in sanità lo facciamo ogni giorno. L’obesità coinvolge 6 milioni di adulti e pesa 13,34 miliardi l’anno (0,8% del PIL). La sedentarietà tocca oltre l’80% degli adulti e addirittura il 92% degli adolescenti. Il consumo di alcol interessa quasi un italiano su tre, generando costi pari allo 0,7% della spesa sanitaria e allo 0,68% del PIL. Unico segnale positivo: i fumatori scendono al 19,8%.
Poi c’è il nemico silenzioso: antibiotico-resistenza. Alimentata dall’uso eccessivo di farmaci ad alto rischio, è associata a oltre 4,7 milioni di morti l’anno a livello globale. In Italia, l’AMR è un moltiplicatore di costi e di esiti negativi. Aumentare la spesa in prevenzione fino al 7% del FSN — e sganciarla dai vincoli contabili europei — non è un dettaglio tecnico: è una scelta industriale sulla salute del Paese.

Capitale umano in trincea: medici e infermieri non bastano più

Numeri alla mano: 625 mila dipendenti nel SSN, ma oltre 7.000 medici hanno lasciato le strutture pubbliche nel 2024 (+133% rispetto al 2022). Si esce per turni usuranti, scarsa autonomia, retribuzioni percepite come non adeguate.
Sugli infermieri il quadro è persino più critico: 6,8 per 1.000 abitanti (contro 8,2 UE). Ogni anno 30–33 mila lasciano la professione, mentre le università formano circa 10 mila nuovi ingressi. E, per la prima volta, le candidature ai corsi scendono sotto i posti disponibili (meno di 19.000 domande per 20.600 posti nel 2025/26). Questo non è un problema di organico: è un problema di attrattività del lavoro. Senza un piano serio su carriere, autonomia clinica, mix di competenze e compensi, nessun piano di riforma reggerà.

Spesa, accesso e divari: dove si inceppa la macchina

La spesa farmaceutica ha toccato 36,2 miliardi, seconda solo alla Spagna. Ma appena il 64% è coperto dal SSN: il resto grava sulle famiglie. La struttura della spesa resta ospedalo-centrica, mentre la transizione verso la de-ospedalizzazione e i servizi territoriali è ancora un miraggio. Risultato: LEA non uniformi, liste d’attesa, differenze marcate tra Nord e Sud. Se la geografia determina l’accesso, l’universalità è, nei fatti, incompiuta.

Industria forte, contesto fragile: il rischio dazi e le filiere globali

La manifattura della salute è un asset strategico. Ma è anche esposta agli shock geopolitici. I dazi statunitensi minacciano il comparto con perdite stimate tra 2,5 e 4 miliardi: meno export significa meno margini per R&S, meno investimenti in linee produttive e, alla lunga, meno disponibilità di farmaci e device per i pazienti europei. Nel breve pagano le imprese; nel medio pagano i cittadini, con carenze e nuove dipendenze extra-UE. La risposta non può che essere sistemica: accordi commerciali intelligenti, diversificazione delle catene del valore, incentivi selettivi all’innovazione.

Intelligenza artificiale: dall’entusiasmo all’adozione governata

L’IA in sanità è passata da promessa a pipeline concreta: da 1,1 miliardi di dollari nel 2016 a 32,3 nel 2024 a livello globale. In Italia il mercato vale 97 milioni (2023) con una previsione di 740 milioni entro il 2030. Il dato culturale è incoraggiante: oltre il 60% dei medici ipotizza di usarla per monitoraggio e prevenzione, la metà per diagnosi più accurate. L’Italia è terza al mondo per numero di studi clinici che integrano IA.
Ma l’adozione si scontra con la realtà: bandi e procedure più lenti del 30% rispetto alla media UE, procurement fissato sul massimo ribasso, scarsa valorizzazione del valore clinico e dell’outcome. Servono percorsi regolatori rapidi, valutazione HTA aggiornata ai modelli data-driven, rimborsi che premino l’impatto sugli esiti, non solo il prezzo.

Malattie rare: dove lo Stato si misura davvero

Oltre 2 milioni di italiani convivono con una malattia rara; il 75% sono bambini. L’Italia è tra i Paesi UE con maggiore disponibilità di farmaci innovativi, ma l’accesso è lento: 439 giorni medi contro 128 in Germania. Restano 130 mila persone non registrate nei RRMR e persistono forti divari territoriali, con la spesa pro-capite molto più bassa al Sud.
Qui la retorica non basta: servono strumenti innovativi di market access (accordi di condivisione del rischio, pagamenti legati a esiti, canali accelerati), rafforzamento dei registri e una rete nazionale di centri di riferimento con percorsi uniformi.

Una strategia nazionale (davvero) operativa

Nove Paesi europei — e l’UE stessa — si sono già dotati di una Strategia sulle Scienze della Vita. L’Italia non può essere l’eccezione. La bussola proposta dal rapporto è chiara:

  1. Portare la prevenzione al 7% del FSN e proteggerla dai vincoli del deficit
  2. Ridisegnare le carriere di medici e infermieri (autonomia, skill mix, differenziali retributivi) e piano straordinario di formazione/retention
  3. De-ospedalizzare con servizi di prossimità e presa in carico delle cronicità
  4. Procurement “value-based”: criteri che premino outcome, qualità e innovazione, non solo il prezzo
  5. Fast-track regolatori e HTA per terapie avanzate, dispositivi e soluzioni di IA
  6. Difesa industriale intelligente: sostegno a export e filiere, mitigazione del rischio dazi, incentivi a R&S e reshoring selettivo
  7. Governance dei dati: interoperabilità, privacy by design, standard aperti per accelerare ricerca e cura.

Metriche che contano: come misurare il cambiamento

Riformare significa misurare. Cinque indicatori semplici, non manipolabili:

  • Tasso di abbandono di medici e infermieri nel SSN
  • Giorni medi di accesso ai farmaci innovativi (totale e per regione)
  • Quota di spesa in prevenzione sul FSN
  • Tempo medio di procurement sanitario rispetto alla media UE
  • Esiti clinici (ad esempio ricoveri evitabili per cronicità) in rapporto all’adozione di modelli di cura territoriali.

Scegliere tra manutenzione del passato e costruzione del futuro

L’Italia della salute è un Paese bifronte: campione industriale e sistema pubblico affaticato. Continuare con la manutenzione del passato significherebbe rincorrere emergenze, accettare divari, normalizzare l’esodo dei professionisti e sprecare il dividendo dell’innovazione. La strada alternativa — più difficile ma praticabile — è trattare prevenzione, capitale umano e innovazione come infrastrutture, non come capitoli di spesa: finanziarle in modo stabile, misurarle, proteggerle dai cicli politici.
La domanda, allora, non è se l’Italia possa diventare un hub strategico delle scienze della vita. Lo è già, nei numeri e nelle competenze. La domanda è se saprà portare questa eccellenza dentro le corsie, accorciando i tempi di accesso, riducendo i divari, restituendo dignità al lavoro clinico. È qui che si decide la qualità della nostra democrazia sanitaria.

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