Universal e Warner trattano intese storiche con aziende di intelligenza artificiale: dai micropagamenti “stile streaming” all’uso dei cataloghi per addestrare i modelli, tra nuove opportunità e un rischio sistemico per la creatività
Il 2 ottobre 2025 segna una linea del tempo: secondo Financial Times e Reuters, Universal Music Group e Warner Music Group sarebbero a un passo da accordi di licenza con società di intelligenza artificiale che potrebbero essere annunciati entro poche settimane. Sul tavolo ci sono start-up come ElevenLabs, Stability AI, Suno, Udio, Klay Vision e colloqui con big tech quali Google e Spotify. La posta in gioco? Fissare come e quanto l’AI può usare la musica — sia per generare brani sia per addestrare modelli — con un modello di remunerazione a micropagamenti, simile allo streaming. È l’embrione di un nuovo contratto sociale tra tecnologia e industria culturale.
Un turning point negoziale (e perché arriva adesso)
L’industria discografica ha imparato a caro prezzo quanto costi arrivare tardi alle rivoluzioni: dalla pirateria ai primi anni dello streaming. Oggi tenta l’anticipo. Le trattative puntano a trasformare la musica da contenzioso a infrastruttura regolata dell’economia AI, con licenze ex ante e un flusso di ricavi continuo ancorato all’uso effettivo delle opere. In filigrana, c’è una realtà già emersa: l’esplosione di contenuti generati o “assistiti” dall’AI ha saturato piattaforme e cataloghi e i player vogliono mettere ordine prima che il caos diventi irreversibile. FT segnala che le etichette vedono in questi accordi un modo per evitare un replay dell’era Napster e per introdurre tecnologie di attribuzione simili al Content ID di YouTube.
Il modello economico: lo “streaming 2.0”
Il cuore tecnico è la monetizzazione. Le major spingono per un meccanismo a eventi (ogni “play”, ogni uso in training, ogni generazione rilevata ⇒ micropagamento), sostenuto da sistemi di riconoscimento e watermarking in grado di collegare un output AI alle opere sorgente. È una logica comprensibile per i cataloghi (ricavi granulari, auditabilità), ma introduce complessità: come misurare il contributo marginale di ciascuna traccia nell’output di un modello generativo? E come distinguere tra inspiration, style transfer e derivazione vera e propria? Le parti ragionano su un compromesso pragmatico: pagare l’uso, negoziando a parte l’eventuale “sanatoria” per il passato uso non autorizzato.
Le linee rosse del diritto d’autore
Questo passo avanti negoziale nasce su un terreno accidentato. Le etichette (insieme alla RIAA) hanno già avviato cause contro generatori musicali come Suno e Udio, accusandoli di usare registrazioni protette per l’addestramento senza licenza. I contenziosi non si fermano alla musica: anche cinema e media stanno testando in tribunale i limiti dell’AI generativa. Il messaggio è chiaro: senza base legale e remunerazione, l’AI non è scalabile nel settore creativo.
Europa, AI Act e sovranità culturale
In Europa il quadro si complica: tra eccezioni di text & data mining, obblighi di trasparenza dei dataset e l’attuazione dell’AI Act, il bilanciamento tra innovazione e diritti è ancora in corso d’opera. Studi del Parlamento europeo e policy brief indipendenti convergono su due priorità: maggiore trasparenza sugli input dei modelli e remunerazione proporzionata dell’uso creativo. In altre parole, trasformare i cataloghi in asset regolati, non in cave non dichiarate.
La musica come materia prima dell’algoritmo
La novità più dirompente non è economica, ma ontologica: la canzone smette di essere solo un prodotto finito da ascoltare e diventa materia prima per sistemi generativi. I cataloghi cambiano natura: da library per sincronizzazioni e streaming a miniere di pattern per reti neurali. Questo apre ricavi inediti (licenze per training, voice models, stem libraries curate), ma introduce un rischio sistemico: la standardizzazione stilistica. Se troppi modelli apprendono dalle stesse hit, il suono globale tende a convergere; l’originalità — il vero vantaggio competitivo dell’artista — rischia di assottigliarsi.
Artisti, fiducia e governance del dato
Le major possono firmare, ma la licenza sociale la concedono gli artisti. Servono clausole chiare: opt-in/opt-out per il training, limiti a clonazioni vocali e style mimicry, kill switch su abusi evidenti, audit terzi sui flussi dati. Senza queste garanzie, il micropagamento rischia di apparire un pizzo tecnologico più che un progresso. La trasparenza — chi allena cosa, quando e per quale scopo — diventa la condizione perché i creatori accettino il nuovo patto.
Mercato e concorrenza: chi guadagna davvero
Gli accordi potrebbero favorire chi dispone di cataloghi profondi (Universal, Warner, e verosimilmente Sony se seguirà), creando barriere all’ingresso per gli indipendenti che non hanno massa critica per trattare. Viceversa, un regime di licenze collettive o marketplace standardizzati potrebbe democratizzare il gioco. L’esito dipenderà da tre variabili: standard tecnici (riconoscimento robusto), grado di trasparenza (reporting verificabile) e design dei prezzi (modelli che non schiaccino la coda lunga).
Le piattaforme tra moderazione e razionamento dell’AI
I servizi di streaming già misurano lo shock dell’AI: volumi di upload esplosivi, spam creativo, rischi reputazionali. Da qui il crescente ricorso a filtri, rimozioni massive e modelli walled garden dove l’AI è ammessa solo se tracciabile e licenziata. Se la filiera si allinea su standard condivisi, le piattaforme potranno passare dalla logica del “togliere il falso” a quella del “certificare l’uso lecito”, con benefici per tutti: meno rumore, più valore.
Il possibile compromesso: licenze vive e diritti adattivi
Il punto di caduta potrebbe essere un sistema ibrido: licenze dinamiche per training e generazione, attribuzione probabilistica dell’apporto dei cataloghi e tariffe a soglie (uso leggero, medio, intensivo), con una cornice di audit indipendenti. Non è perfetto, ma è scalabile e soprattutto verificabile, l’unica strada per evitare che la prossima rivoluzione si trasformi nell’ennesima crisi di fiducia.
Trattare col futuro, non subirlo
Se gli accordi andranno in porto, Universal e Warner avranno trasformato una minaccia esistenziale in infrastruttura economica. Non sarà la fine dei conflitti — i tribunali resteranno un arbitro —, ma l’inizio di una governance possibile. La vera domanda, però, non è se l’AI “ucciderà” o “salverà” la musica. È chi definirà le regole di convivenza tra creatività umana e calcolo statistico.
Se a farlo saranno contratti trasparenti, standard aperti e pagamenti equi, la musica non perderà la sua anima: nè cambierà pelle. Se prevalgono opacità e rendite di posizione, ci ritroveremo con un oceano di tracce sintetiche e poco valore culturale.
Il futuro è già entrato in studio: ora tocca all’industria — major, artisti, piattaforme e sviluppatori — decidere se accordare gli strumenti o continuare a suonare ognuno per conto proprio.