Mappe, non sigle: costruire una grammatica della comprensione dell’AI

Giovanni Di TrapaniGiovanni Di Trapani
| 30/09/2025

Ogni anno nasce una nuova sigla che sembra ridefinire i confini dell’intelligenza artificiale. AGI, LLM, LRM, GPAI: acronimi che condensano in poche lettere l’idea di una svolta epocale. Ma più aumentano le etichette, più rischiamo di perderci nel labirinto del marketing tecnologico.

È una rincorsa senza respiro, dove la parola nuova sostituisce quella vecchia senza che vi sia stata una reale trasformazione di fondo. Se vogliamo davvero comprendere l’AI, non abbiamo bisogno di altre sigle: abbiamo bisogno di mappe.
Una sigla è un segno che semplifica, ma non spiega. Una mappa, invece, organizza punti, connessioni e percorsi, rendendo visibile la struttura di un territorio. Portare questa metafora nell’ambito dell’AI significa costruire strumenti interpretativi che vadano oltre l’etichetta: dati empirici per identificare i punti, metriche per descrivere le connessioni, narrazioni critiche per delineare i percorsi.
È l’unico modo per collocare l’AI in un quadro sistemico, evitando di confondere le promesse con le trasformazioni reali.
Marshall McLuhan ci ha insegnato che “il medium è il messaggio”: non si può capire una tecnologia senza considerare come essa riorganizzi percezioni, economie e culture.
Manuel Castells ha mostrato come le reti di comunicazione plasmino il potere. Applicare queste intuizioni all’AI significa collocare i modelli dentro le dinamiche della società in rete, anziché trattarli come entità isolate.
Le mappe diventano allora strumenti indispensabili per capire come i sistemi di AI si intrecciano con mercati digitali ipertrofici, con l’economia dell’attenzione, con le disuguaglianze informative.
Costruire mappe non è un esercizio metaforico, ma un metodo di lavoro. Una grammatica della comprensione dell’AI può articolarsi lungo quattro direttrici, ciascuna necessaria a integrare conoscenze e a fondare politiche pubbliche più solide.

  1. Analisi storica. Non possiamo comprendere l’AI senza serie temporali che ne documentino l’evoluzione. È necessario mappare come siano cambiati i modelli, le metriche di valutazione, i dataset di riferimento. Uno sguardo storico consente di distinguere la novità effettiva dalla semplice
    variazione incrementale, la trasformazione profonda dal rebranding.
  2. Comparazione interdisciplinare. Sociologia, filosofia, economia e informatica devono dialogare senza confondersi. La sociologia digitale può mostrare come le piattaforme ridistribuiscano l’attenzione; la filosofia della scienza può interrogarsi sulla natura della comprensione; l’economia politica può analizzare le catene di valore che sostengono l’industria dell’AI. Senza questo intreccio, ogni disciplina rischia di restare chiusa nel proprio linguaggio, incapace di cogliere la complessità del fenomeno.
  3. Contestualizzazione politica. L’AI non è neutra: è inscritta in rapporti di potere e di governance.
    I programmi europei, da Horizon Europe al nuovo AI Act, ci ricordano che le politiche pubbliche
    non possono inseguire le narrazioni di mercato, ma devono tradurre le tecnologie in regole e opportunità per i cittadini. Una mappa deve dunque includere attori istituzionali, strategie geopolitiche, dinamiche industriali.
  4. Trasparenza narrativa. La complessità non può essere comunicata solo con report tecnici.
    Servono narrazioni critiche accessibili, capaci di distinguere tra hype e sostanza. Una grammatica
    della comprensione richiede anche un patto comunicativo: spiegare in modo chiaro senza
    semplificare in modo ingannevole, offrendo al pubblico strumenti per discernere.

L’insistenza sulle sigle è funzionale al mercato: ogni nuova etichetta cattura l’attenzione, stimola
investimenti, mobilita risorse. Ma le istituzioni e la società civile non possono ragionare con la stessa logica. Una governance efficace dell’AI ha bisogno di mappe che rendano visibili i processi, che mostrino chi controlla i dati, quali infrastrutture consumano energia, quali effetti sociali derivano dalla diffusione dei modelli.
Solo una base empirica consente politiche pubbliche capaci di incidere. Valutare l’impatto occupazionale con statistiche affidabili, monitorare l’impronta ambientale con indicatori trasparenti, analizzare la disuguaglianza informativa con metriche comparabili a livello internazionale: sono tutte attività che necessitano di mappe condivise.

Questa riflessione non vuole restare teorica. Come think-tank innovativo, possiamo assumerci la responsabilità di avviare un vero e proprio cantiere di cartografia critica dell’AI. Un “Atlante IF dell’AI” che raccolga serie storiche, casi di studio, confronti interdisciplinari, analisi politiche e narrazioni critiche. Non un repertorio statico, ma uno strumento dinamico, aggiornato con continuità, utile a ricercatori, imprese, decisori pubblici e cittadini consapevoli. Sarebbe un contributo concreto per distinguere il transitorio dall’essenziale, il marketing dalla trasformazione reale. Un modo per dare alla società strumenti di orientamento, sottraendo la comprensione dell’AI al monopolio delle sigle e restituendola alla responsabilità collettiva. Le sigle hanno il pregio della sintesi, ma non possono sostituire la comprensione. L’intelligenza artificiale non è un acronimo, è un territorio complesso che attraversa dimensioni tecniche, economiche, sociali e culturali. Per orientarsi in questo territorio servono mappe, non etichette. Mappe che intreccino dati e valori, empiria e critica, numeri e narrazioni. Mappe che consentano di capire come l’AI si radichi nei nostri sistemi sociali, quali rischi concreti porti con sé, quali opportunità realistiche offra. Mappe che trasformino l’etica e la governance da enunciazioni astratte a pratiche fondate su conoscenze condivise.
Il futuro dell’AI non sarà deciso dall’ultima sigla coniata, ma dalla nostra capacità di costruire queste mappe e di usarle come strumenti di comprensione e di governo. È la sfida che ci attende e il compito che un think-tank innovativo come IF – Italia nel Futuro può assumere come propria missione.

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