Una scommessa che sfida mercato, diritto e transizione energetica globale, tra deregolamentazione ambientale, costi nascosti e nuove fratture geopolitiche
Donald Trump riporta il carbone al centro della scena politica ed economica americana. Con l’apertura di 13,1 milioni di acri di terreni federali alle concessioni minerarie e un pacchetto di 625 milioni di dollari per sostenere le centrali a carbone, la Casa Bianca sceglie di rianimare un settore in declino da decenni. È una mossa che sfida le dinamiche del mercato, entra in rotta di collisione con la transizione energetica globale e riaccende il dibattito giuridico e geopolitico sull’autonomia energetica degli Stati Uniti.
Il ritorno del carbone come strategia politica
La decisione dell’amministrazione Trump non è un semplice atto industriale, ma un segnale politico. Dopo anni di chiusure di impianti e miniere, il carbone viene dipinto come pilastro della sicurezza nazionale. Il messaggio è chiaro: il carbone non è un relitto del passato, ma un asset strategico per garantire l’autosufficienza energetica in un contesto di domanda crescente, trainata da data center, nuove manifatture e processi di elettrificazione.
Eppure, al di là della retorica, i numeri raccontano un’altra storia. Il carbone rappresenta oggi meno del 20% della produzione elettrica americana, ridotto dalla quota dominante che deteneva solo vent’anni fa. Le rinnovabili e il gas naturale hanno eroso progressivamente la sua centralità. L’operazione Trump, dunque, appare come una scelta controcorrente, che punta più a preservare simboli e consenso politico che a costruire un futuro industriale sostenibile.
Le concessioni minerarie: 13,1 milioni di acri per un settore in difficoltà
L’apertura di 13,1 milioni di acri – un territorio vasto quanto la superficie complessiva di Paesi come Grecia o Nicaragua – segna una delle più grandi operazioni di leasing minerario degli ultimi decenni. Stati come Wyoming, Montana e Colorado saranno i primi beneficiari, con nuove opportunità per la Powder River Basin, bacino che ha alimentato per decenni le centrali americane.
L’operazione sblocca anche giacimenti precedentemente vincolati da protezioni ambientali o da limiti introdotti durante le amministrazioni precedenti. In Wyoming, ad esempio, l’espansione della miniera di Antelope consentirà di estrarre 14,5 milioni di tonnellate aggiuntive di carbone federale, un dato che mette in luce la portata immediata delle nuove concessioni.
Ma dietro la promessa di nuove opportunità si nasconde una fragilità strutturale: il mercato globale del carbone è in contrazione e il surplus estrattivo rischia di alimentare giacimenti che non trovano più domanda, trasformando concessioni e infrastrutture in stranded assets.
Sussidi pubblici alle centrali: un salvataggio mascherato
Il pacchetto da 625 milioni di dollari destinato alle centrali non è un incentivo alla modernizzazione, ma un vero e proprio salvataggio. Molti impianti erano destinati alla chiusura per ragioni economiche: margini troppo bassi, costi di manutenzione crescenti, difficoltà a rispettare standard ambientali. La scelta federale obbliga queste strutture a restare operative, trasferendo i costi sui contribuenti e sui consumatori finali.
Stime indipendenti calcolano che l’impatto sui cittadini americani potrebbe aggirarsi tra i 3 e i 6 miliardi di dollari l’anno, sotto forma di tariffe più alte e sussidi incrociati. È un prezzo elevato per mantenere in vita una tecnologia in declino, mentre solare ed eolico continuano a scendere di costo e a generare occupazione in settori ad alta intensità tecnologica.
Questa politica alimenta un paradosso: mentre il resto del mondo spinge verso l’innovazione, gli Stati Uniti rischiano di investire risorse pubbliche in un modello energetico del passato.
Scontro istituzionale e deregulation ambientale
Uno degli aspetti più controversi del piano è l’uso dei poteri d’emergenza da parte del Dipartimento dell’Energia per imporre la continuità operativa di centrali già destinate alla dismissione. Questa forzatura mette in crisi l’equilibrio federale: Stati e autorità locali, che avevano programmato la chiusura di impianti per ragioni economiche o ambientali, si vedono scavalcati da ordini diretti della Casa Bianca.
Sul fronte ambientale, la deregolamentazione è altrettanto radicale. Decine di centrali hanno già ricevuto esenzioni dai limiti alle emissioni di mercurio, arsenico e altre sostanze tossiche, in nome di una presunta urgenza energetica. La revoca delle regole introdotte sotto l’amministrazione Biden apre a un’ondata di ricorsi da parte di associazioni ambientaliste e amministrazioni statali.
Il rischio è che i tribunali diventino il campo di battaglia principale, trasformando la politica energetica in un contenzioso giuridico permanente.
Il mito del “carbone pulito” e i limiti tecnologici
L’amministrazione Trump ha rilanciato la narrativa del “clean coal”, evocando tecnologie di cattura e stoccaggio della CO₂ come soluzione per conciliare carbone ed esigenze ambientali. Ma la realtà è ben diversa. I progetti pilota sviluppati finora negli Stati Uniti hanno mostrato costi altissimi, fallimenti tecnici e difficoltà di scalabilità.
Le utilities faticano a reperire capitali per progetti di retrofit tecnologico, e la catena di fornitura del settore è ormai impoverita da decenni di contrazione. Di fatto, il carbone pulito resta più uno slogan che una prospettiva industriale concreta. In un mercato dominato da innovazione e riduzione dei costi, scommettere sul clean coal significa investire in una promessa ancora irrealizzata.
Geopolitica dell’energia: tra autonomia e isolamento
Trump presenta il ritorno al carbone come strumento di indipendenza energetica, in un mondo attraversato da tensioni geopolitiche e da conflitti che hanno reso fragile la sicurezza delle forniture di gas e petrolio. L’argomento ha presa politica: meno dipendenza dall’estero, più controllo interno sulle risorse.
Ma sul piano internazionale il segnale rischia di tradursi in isolamento. Mentre Europa, Cina e perfino grandi economie emergenti accelerano la transizione verso le rinnovabili, gli Stati Uniti rischiano di apparire ancorati a un modello energetico del Novecento. Le conseguenze possono essere rilevanti: dalla perdita di credibilità nei negoziati sul clima fino all’impatto commerciale di nuovi meccanismi come il carbon border adjustment europeo, che penalizzano le economie ad alta intensità di emissioni.
Scenari a confronto: rilancio temporaneo o declino accelerato
Gli scenari possibili si dividono nettamente. Nel migliore dei casi per l’amministrazione, le misure riusciranno a prolungare la vita di alcune centrali e a mantenere occupazione in aree minerarie in crisi, offrendo al carbone un ruolo di “riserva strategica” nelle reti elettriche.
Ma l’ipotesi più plausibile resta un’altra: il rilancio si rivela antieconomico, i contenziosi legali rallentano i progetti, le bollette crescono e il carbone continua a perdere terreno di fronte a tecnologie più efficienti e sostenibili. In questo scenario, l’America rischia di bruciare miliardi pubblici per mantenere in vita un settore che il mercato globale ha già condannato.
Un futuro scritto nel passato
Il piano Trump sul carbone è più di una politica energetica: è un manifesto ideologico che punta a riscrivere la narrazione americana sull’energia. Ma dietro la retorica dell’autonomia e della grandezza industriale si intravedono i limiti di una strategia difensiva, che ignora la direzione della storia e tenta di fermare un cambiamento già in corso.
Il carbone, oggi, non è più il motore della crescita, ma il simbolo di un modello che si spegne. Scommettere su di esso significa inseguire un passato che non tornerà. L’America avrebbe bisogno di un’energia del futuro: innovativa, competitiva, capace di guidare la transizione globale. Invece, il rischio è che il rilancio del carbone diventi il colpo di coda di un’epoca finita, pagato a caro prezzo dai consumatori, dall’ambiente e dalla credibilità internazionale degli Stati Uniti.